No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20140601

Ritratto dell'Uruguay, il paese che sorprende il mondo (5)

continua dal 22 maggio

Sono tutti uguali
A metà settimana riceviamo una telefonata dall’ufficio della presidenza. Ci dicono che Mujica si scusa per non aver potuto mantenere la promessa di portarci ad Anchorena e, se siamo d’accordo, ci invita per venerdì. Gli diciamo di sì, certamente, e ci accordiamo per farci venire a prendere all’una in albergo. Il piano è questo: passiamo a prendere il presidente a casa e insieme andiamo ad Anchorena, a circa tre ore di distanza, per visitare la tenuta e rientrare in serata. Da qualsiasi punto di vista, il comportamento di Mujica è incredibilmente generoso. L’automobile presidenziale è una Volkswagen di media grandezza senza indizi esterni o interni sull’identità del suo passeggero. “Come vi avevo promesso, andiamo lì, facciamo qualche foto, ci beviamo un bicchiere e poi torniamo”, dice Mujica uscendo di casa con la faccia lavata e i capelli bagnati, come se si fosse appena alzato. Anchorena è una tenuta di più di 1.300 ettari che un argentino con questo cognome regalò al governo di Montevideo a patto che diventasse la residenza estiva del presidente. Il regalo imponeva alcune condizioni, tra cui il divieto di vendere la proprietà e l’obbligo per il presidente di trascorrere lì almeno trenta giorni all’anno. Sulla strada per Anchorena, Mujica siede vicino all’autista. Socías è seduto dietro all’autista, con la macchina fotografica puntata, e io sono dietro a Mujica. “Cosa le è successo sabato scorso?”, chiedo al presidente. “Dovevo scavalcare un fossato, pioveva, mi sono bagnato e mi è venuto il rafreddore. Ho preso qualche medicina e faccio un po’ di aerosol”. Durante il tragitto, Mujica dice che la pioggia gli ha giocato “proprio un brutto tiro”. Poi ci racconta che è nato in una chacra e ha passato un sacco di tempo a studiare gli allevamenti di tutto il mondo per conoscere la ricchezza più grande del suo paese. “Qui”, afferma indicando un punto del paesaggio, “stanno costruendo una facoltà di veterinaria”. Mujica spiega che per prima cosa i vecchi anarchici fondavano una biblioteca e una tipografia, che dal 1900 al 1920 gli anarchici ebbero una grande influenza in Uruguay e poi abbandonarono l’anarchia, ma continuarono a preoccuparsi della questione sociale. Sono stati gli anarchici, racconta il presidente, a creare i sindacati. “Mio padre morì quando avevo sette anni. Vivevo in una chacra molto piccola insieme a mia madre. Poi le fattorie hanno cominciato a sparire e sono arrivati i quartieri operai: era un paesaggio pieno di tute blu. In quel periodo sono entrato in politica. Alle superiori ho militato in un’organizzazione libertaria. Il nostro slogan era: ‘Fatti cacciare dal lavoro perché lotti, non perché lavori poco’. Invece gli anarchici moderni lottano per non lavorare”. “Questa parte qui”, continua Mujica indicando le punte della pianta di soia, “è diventata così a causa della pioggia: ha piovuto così tanto che si è sciolto l’azoto, che è molto solubile in acqua”. Tre tonnellate di soia a ettaro, sostiene, equivalgono a 1.500 dollari lordi. “Il valore netto è cinquecento dollari”. Secondo il presidente uruguaiano, credere al dollaro è come credere a Babbo Natale o andare da un tappezziere che misura i tessuti con un metro di gomma allungabile e accorciabile a suo piacimento. Mujica si definisce ateo, ma dà molta importanza filosofica e politica alla religione: “Essere ateo non mi ha mai creato nessun problema, perché sono uruguaiano. José Luis Batlle (presidente dell’Uruguay dal 2000 al 2005) era profondamente anticlericale, scriveva dio con la minuscola. Io non lo sono”. Vista da vicino, Anchorena è ancora più bella, se possibile, di quello che ci hanno raccontato: è il paradiso. È un edificio enorme dei primi del novecento, con gli ambienti perfettamente conservati. La grande cucina ricorda un romanzo di fine ottocento e nei bagni il pavimento e i sanitari sono ancora quelli originali. Il presidente Mujica ci guida da una stanza all’altra con un’espressione incredula, come se ancora non si fosse abituato a quello spreco. Quando trascorre il fine settimana qui con la moglie, alloggiano in una dépendance vicina che un tempo serviva per gli invitati e che loro chiamano el hotelitoDopo aver bevuto una bibita, Mujica si mette al volante di una specie di fuoristrada su cui saliamo anche io e Socías, e insieme ci perdiamo per l’enorme tenuta. Davanti all’auto passano ogni tanto dei branchi di cervi: sono centinaia, forse migliaia. La situazione sembra davvero assurda: nessun presidente di nessun paese del mondo farebbe a meno della scorta su un tragitto non privo di rischi e con due sconosciuti a bordo. Si vedono alberi, piante e arbusti di ogni tipo, e il fuoristrada procede come per miracolo tra la sterpaglia e le buche, sulla terra umida dopo le piogge degli ultimi giorni. Quando ci fermiamo, chiedo a Mujica quanti soldi ha con sé. Pepe tira fuori dalla tasca posteriore dei pantaloni un vecchio portafoglio: “Venti o trentamila pesos”, risponde sbirciando dentro. “Io mi occupo della spesa e compro quello che serve per la casa. Non ho carte di credito, perché pago tutto in contanti. Una volta sono andato in un negozio di motorini per comprare una Vespa e il commesso mi ha proposto di pagarla a rate. Poi ho capito che non voleva vendermi la Vespa, ma il credito. L’ho pagata in contanti, ma non sono riuscito a farmi fare più di cento dollari di sconto”. Il portafoglio del presidente della repubblica dell’Uruguay è pieno di foglietti con appunti e numeri, forse telefoni annotati di fretta. Noto che ha anche qualche dollaro. “E quelle banconote?”, gli chiedo. “Ah”, risponde, “me le porto dietro per qualsiasi evenienza quando vado all’estero. Ma non le spendo mai, perché appena scendo dall’aereo c’è sempre qualcuno che mi viene a prendere e mi accompagna da ogni parte. Di sicuro sono i dollari che hanno viaggiato di più al mondo”. La nostra gita, invece, si conclude su una piccola spiaggia della costa del Río de la Plata: in lontananza si vede Buenos Aires. Un pino è stato sradicato dal vento ed è sopravvissuto affondando le radici nella sabbia. “Sembra incredibile ma non ci prendiamo cura della vita, che è solo una parentesi. Abbiamo tutta l’eternità per non essere”, dice il presidente. Sulla strada del ritorno Mujica ci fa vedere le mucche e le stalle. La sua idea è di trasformare Anchorena, che dà lavoro a una ventina di persone, in una tenuta autosufficiente. Il pomeriggio termina a Colonia, il capoluogo del dipartimento a cui appartiene Anchorena e da dove partono i traghetti per Buenos Aires. Siamo seduti sulla terrazza di una caffetteria e Mujica diventa proprietà delle persone che si avvicinano, lo baciano, lo toccano e gli chiedono di risolvere qualche problema. In un secondo il tavolo si trasforma in un ufficio dove il presidente prende nota di tutte le richieste dei cittadini. “È importante togliere quest’aura sacrale alla presidenza”, mi dirà dopo Mujica. “È una scelta politica, per il bene del sistema repubblicano. La distanza tra i politici e i cittadini sta creando molta sfiducia e non c’è malattia peggiore della gente che non crede al proprio governo. Di quando qualcuno dice: sono tutti uguali. E invece non è così”.       

L'articolo è terminato, ma avrei voluto non finisse mai. Quando ci saranno tanti presidenti così, staremo senz'altro meglio. Lunga vita a Pepe Mujica. (nota di jumbolo)

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