No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20130830

a long goodbye

Mercoledì mattina stavo cazzeggiando, dopo essere andato in piscina e dopo il temporale della notte, aspettando il momento propizio per andare al mare oppure no (avevo preso qualche giorno di ferie per pianificare le prossime ferie), quando mi arriva un sms da mia sorella che mi dice "tra mezz'ora c'è il funerale di D.". Non posso dire che mi abbia colto impreparato, ma almeno un po' si: non sapevo che fosse morta. E, tecnicamente, D. è morta giovedì scorso, quasi una settimana.
D. era un'amica. Era in coma da quasi 6 anni, dopo un terribile incidente. Negli ultimi tempi ci eravamo un po' persi di vista, ognuno cresce, cambia giri, abitudini, fidanzati/e. Ma le volevo bene, a lei e a sua sorella, sua madre mi stava simpatica ed è un'ottima cuoca, tra l'altro. D. e sua sorella sono (la scelta del tempo da usare è un po' difficoltosa, lo ammetto) due belle ragazze, con lineamenti particolari: somigliano alla sfinge, e questa cosa la pensavo prima di scoprire che la loro mamma è egiziana. D. era dolce, ingenua a volte, spesso entusiasta della vita in generale. Un paio di ricordi che ho di lei sono un concerto di Manu Chao visto insieme, e del poliziotto/carabiniere che le aveva perquisito la borsa all'entrata, che le aveva chiesto cos'era quello riferendosi al filo interdentale (D. se lo portava in borsa, come probabilmente molte donne, sapete che nelle borse delle donne c'è di tutto). Ridemmo per un po' riflettendo sul fatto che probabilmente il tutore dell'ordine non sapesse che cos'era, il filo interdentale; l'altro è sempre un concerto, di Giorgia: glielo "regalai" per un suo compleanno, e devo dire che fu meglio di quanto pensassi inizialmente.
D. avrebbe avuto circa 40 anni oggi; uso il condizionale perché, appunto, gli ultimi sei anni non li ha vissuti. Sua madre e sua sorella, insieme a diversi amici e amiche intime, si sono presi cura di lei. Io, da vero stronzo, non l'ho mai vista, in questi sei anni. Penserete che sono, come si dice da noi, un caerello, e fareste bene: anni fa, un parente è morto di aids, e non sono mai riuscito, o meglio, non ho mai trovato la forza di andarlo a trovare in ospedale. Non sarei riuscito a sopportare quell'ingiustizia, quello scempio, così come per D. Volevo ricordarmela bella, dolce, solare, con la pelle ambrata e gli occhi della sfinge.

Anche i funerali non sono il mio forte, da dopo quello di mia madre li ho frequentati poco. Ma a quello di D. non potevo mancare. Sono andato, trovando tante facce conosciute, molte in lacrime. Si svolgeva nella chiesa della frazione vicina al paesello; il prete, che non avevo mai visto né sentito, mi ha fatto una buona impressione. All'omelia, l'ho ascoltato attentamente. Mi è piaciuto come è partito. E' stato schietto, ha detto che aveva riflettuto un po' su quello che volevamo sentirci dire, e che aveva concluso che non lo sapeva, perché non poteva mettersi nei nostri panni. Che il dolore è troppo grande, e che non sarebbe giusto dire che la fede aiuta a lenirlo. Ha continuato bene, finché, verso la fine, ha detto qualcosa sugli ultimi anni di D., tipo che non sono stati inutili.
Ora, la cosa mi ha fatto risentire. So che è un argomento trito e ritrito, ma è così. E ci rifletto spesso. Capisco che il dogma della chiesa cattolica sia quello, che la spina non si stacca mai, e quindi anche quel prete tanto schietto ed onesto non poteva andare fuori dal seminato; capisco anche la mamma e la sorella, che fino alla fine si sono aggrappate al flebile filo di speranza: tutti, o quasi, facciamo/faremmo così.
Però a me questa cosa non va giù. Una persona in coma non vive. Vegeta. E raramente se si sveglia può mettersi a fare le capriole. Senza contare l'azzeramento delle vite delle persone (soprattutto i familiari) che si gettano a capofitto nella cura della persona in coma. Insomma, non vorrei mai ritrovarmici, e addirittura spesso mi ritrovo a pensare che non importerebbe (cambio per un momento "genere" di malattia) trovare la cura per il cancro, basterebbe che almeno si riuscisse a determinare se sarà mortale oppure no, e nel caso fosse mortale, si dovrebbe essere liberi di scegliere di non fare la chemioterapia. Scusate se ho divagato, ma ogni volta penso a mia madre, e non potrebbe essere altrimenti.

Come che sia. D. è morta. Poteva avere davanti a sé una lunga vita felice, e invece non c'è più. Io, cinico e anche un po' caerello, mi ci ero già abituato. Però mi mancherai ugualmente, con la tua pelle colore d'Africa e il tuo filo interdentale. Mancherai a molti di noi.

Non c'entrerà niente, ma mentre ti pensavo mi veniva in mente questa canzone, forse solo per il titolo: il viale dei sogni infranti. Ciao.

20130829

cane nero che abbaia

Black Dog Barking - Airbourne (2013)

Bisogna ammettere che scrivere di band come gli australiani Airbourne, è al tempo stesso semplicissimo, l'esempio lo potete vedere da soli con la mia recensione del loro secondo disco No Guts, No Glory, o molto, molto difficile, se ci si mette in testa di raccontare qualcosa che si allontana dalla realtà, infarcendo magari la recensione di voli pindarici. I quattro aussies sono una clone-band della hard rock band per eccellenza, gli AC/DC; gli Airbourne, tanto per metterci il carico da undici, sono australiani come gli AC/DC, e addirittura hanno due fratelli in formazione (Joel e Ryan O'Keeffe, il primo voce e chitarra solista, il secondo batteria; i nomi dei fratelli degli AC/DC non mi metterò qui a scriverveli di certo). L'unica altra influenza udibile, ascoltandoli per così dire al microscopio (sarebbe più corretto usare qualcosa legato con l'udito che non con la vista, ma tant'è), nonostante loro possano citarne a fiumi, è quella dei Def Leppard, ma ovviamente, se non li avete mai ascoltati, al confronto con quella degli AC/DC è praticamente impercettibile. A quanto mi risulta poi (guardatevi solo le copertine dei primi due dischi; questa è la prima sulla quale non appare la band), agli Airbourne non interessa minimamente negare l'evidenza.
A questo punto, uno potrebbe pensare: quindi, i dischi degli Airbourne fanno cagare? Hell no!, come vi risponderebbe uno statunitense, no davvero. Ascoltarli, senza fregarsene dei titoli dei pezzi, del punto del disco in cui sono, è una goduria immane, fosse solo perché sembra di ascoltare degli inediti degli AC/DC, ovviamente.
Non finisce qui. Gli Airbourne, usualmente molto generosi con edizioni speciali e varie bonus track, stavolta, con questo Black Dog Barking uscito nel maggio 2013, esagerano. Oltre a tre pezzi extra, la versione Deluxe col bonus disc propone appunto un dischetto in più con ben otto pezzi live, intitolata Live At Wacken 2011, naturalmente con pezzi sia dal debutto Runnin' Wild che da No Guts, No Glory. C'è pure Girls in Black, che era presente solo sull'EP Live at the Playroom del 2007.
Preparatevi quindi ad un prolungato headbanging.

20130828

colpa mia

Mea Culpa - Clementino (2013)

Incuriosito dal featuring sul nuovo disco di Ntò, mi sono andato ad ascoltare il terzo disco del rapper originario di Cimitile, Napoli, relativamente nuovo, perché uscito il 28 maggio di quest'anno. C'è da dire che, generalizzando un poco, e prendendomi la responsabilità dell'eventuale castroneria, il dialetto napoletano pare essere particolarmente musicale, ed adattarsi dannatamente bene al rap, forse per la sua teatralità, forse perché semplicemente, da quella zona escono molti talenti. Perché Clementino è un talento vero: con quella voce che spesso sembra prenderti per il culo, e che ricorda Caparezza quando estremizza la sua attitudine "cartone animato" (ma è probabile sia una coincidenza), è considerato uno se non il migliore freestyler italiano. Non è tutto: semplicemente leggendo qua e là la sua biografia, lo scopro appassionato di recitazione, addirittura diretto da Pino Quartullo in Che ora è?, allestimento teatrale ispirato all'omonimo film di Ettore Scola.
Detto questo, il disco è interessante. Forse ancor più eterogeneo e diversificato rispetto (per dire) a Ntò, come ogni disco rap che si rispetti è prodotto da produttori differenti via via che i pezzi si snocciolano (Shablo, Fritz da Cat, DJ Nais, Big Joe, Del, Don Joe, Manu PHL, Mace, Medeline, Hidden Trippers), mette in fila una serie di collaborazioni impressionanti e più che variegate, con risultati quasi sempre eccitanti.
A mio modesto giudizio, devastante la title-track con il featuring dell'indimenticabile Meg, che a distanza di anni continua a farmi eccitare (letteralmente) ogni volta che la sento cantare, ottime Dalle palazzine (con Marracash, Ntò, Noyz Narcos e Paura), Giungla (con Rocc Hunt), Messaggeri del Vesuvio (con Napoli Rap All Stars) e Questa volta (con l'amico Fabri Fibra); interessanti Il Re Lucertola (tributo a Jim Morrison) con Il Cile, Senza pensieri con TheRivati, Sei come sei con Gigi Finizio, e la curiosa Buenos Aires/Napoli con i Negrita, bruttina Fratello con il featuring di Lorenzo Jovanotti. Ma ci sono ottimi beat, testi, melodie anche nei pezzi senza collaborazioni: Amsterdam, la bella O' Vient, Aquila reale, Alto livello, capolavoro Pianoforte a vela, davvero toccante musica e testo, mentre per i miei gusti un po' troppo techno le conclusive Che Hit, anche se relativamente divertente, Va bene così e Clementonik (anche quest'ultima però piuttosto divertente).
Davvero niente male, anche per gente, come me, non proprio preparatissima sull'hip hop.

20130827

A Feast for Crows

Il dominio della regina/L'ombra della profezia (Libro quarto delle cronache del Ghiaccio e del Fuoco) - George R.R.Martin (2006/2007)

La storia (spoiler alert)
Nelle Isole di Ferro, dopo la morte (pare) accidentale di Balon Greyjoy, e con Theon dato per disperso, si apre la lotta per la successione. I pretendenti principali sono Asha, la figlia di Balon, Victarion, fratello di Balon e comandante della flotta di Ferro, ed Euron, detto Occhio-di-Corvo, altro fratello di Balon, in esilio da alcuni anni e tornato, in maniera un po' sospetta, esattamente il giorno seguente alla morte di Balon, sulle Isole. Aeron detto Capelli Bagnati, altro fratello di Balon e profeta del Dio Abissale, indice un'Acclamazione di Re, rito in disuso, per evitare una faida intestina ai Greyjoy. Gli Uomini di Ferro dominano ancora il Nord, ed hanno intenzioni diverse, a seconda di chi sarà il successore di Balon.
A Dorne, dopo gli accadimenti di Approdo del Re, il popolo e le figlie bastarde di Oberyn Martell (la Vipera rossa) spingono per scendere in guerra conto gli altri regni, e soprattutto contro Approdo del Re e i Lannister. Il principe Doran, martoriato dalla gotta, considerato un debole ma che in realtà coltiva altri progetti, non è d'accordo, e fa imprigionare le cosiddette Serpi delle Sabbie (le figlie bastarde di Oberyn) dal suo comandante delle guardie Areo Hotah. Ad Areo toccherà ancora un ingrato compito, quando, sulla falsariga del pensamento popolare e delle Serpi, anche Arianne, figlia di Doran e sua erede legittima, rapisce Myrcella, assieme ad alcuni elementi fidati, per dichiararla regina ed avere finalmente il casus belli.
Brienne viene incaricata da Jaime di ritrovare Sansa Stark, scomparsa immediatamente dopo la tragica morte di Joffrey, per la quale viene accusata insieme a Tyrion. La Vergine di Tarth non ha la più pallida idea di dove cercarla. In realtà, Sansa è ancora al Nido dell'Aquila, dove Ditocorto sfoggia le sue tattiche politiche: i lord della Valle non lo accettano come loro signore, ma Petyr Baelish non è uno che si fa intimidire, pur non essendo un guerriero. Arya Stark, nel frattempo, è riuscita ad arrivare a Braavos, dove da una parte si unisce agli Uomini senza Volto, che la accolgono nel loro tempio, dall'altra diventa Cat, una venditrice di frutti di mare nei bassifondi della città e presso gli attracchi delle navi.
Alla Barriera, il nuovo Lord Comandante Jon Snow, che ospita ancora Stannis Baratheon e le sue truppe, assieme all'immancabile Melisandre, è costretto ad alcuni "giochetti": invia Samwell Tarly alla Cittadella per divenire Maestro e prendere il posto di maestro Aemon, ormai centoduenne. Manda con lui anche maestro Aemon e Gilly, con suo figlio. Il figlio di Mance Rayder, dunque, rimane senza la sua nutrice. Jon Snow non saprà niente, ma non è uno sprovveduto.
Ad Approdo del Re le cose si fanno interessanti. Dopo aver inviato una falsa Arya Stark al Nord sotto la protezione di Lord Bolton, e aver sepolto il padre Tywin, Cersei è impegnata in una lotta tattico-politica per conservare le mani sul potere. E' la regina reggente del figlio Tommen, adesso re, ma si vede rifiutare collaborazione sia da Jaime che dallo zio Kevan. Nomina quindi un Primo Cavaliere ininfluente, esautora praticamente tutto il consiglio ristretto, ma è costretta a cedere alle insistenze dei Tyrell, ed acconsente al matrimonio tra Tommen e Margaery. Varys è scomparso dopo la morte di Tywin, così come Tyrion e Sansa, Cersei offre il titolo di Lord a chiunque le porterà la testa del fratello nano, mentre stringe nuove amicizie (poche) e si crea nuovi nemici (molti), e cerca di trovare un modo di liberarsi da Margaery.

Il commento
In un certo qual modo, con il Libro Quarto il nostro Martin sembra rallentare la velocità generale. Inoltre (in chiusura c'è una nota di suo pugno in proposito), ci stupisce tagliando molti personaggi P.O.V. ed introducendone moltissimi nuovi. Nessun capitolo a nome Bran, Dany, Jon Snow, Tyrion, Davos, in questo libro la fanno da padrone Cersei, Jaime, Brienne e Samwell Tarly. Qualche capitolo per Sansa ed Arya, e poi spazio ai "pensieri" di molti personaggi già noti ma anche fin'ora sconosciuti, per espandere l'universo di Westeros: Areon Greyjoy, Areo Hotah, Asha Greyjoy, Arys Oakheart, Victarion Greyjoy, Arianne Martell.
Ma è solo una necessità, per così dire. La storia si espande così tanto, che Martin è stato costretto a "dividere" in due la cronologia degli eventi tra due gruppi di personaggi P.O.V. (proseguendo con la lettura del Libro Quinto vederete che la storia "riparte" dalla fine del Libro Terzo ma esamina punti di vista di alcuni personaggi messi da parte con il Libro Quarto). Il risultato, anche se molti, ho saputo, considerano questo libro un libro minore, è dannatamente interessante e incredibilmente scorrevole. Martin descrive un mondo completamente inventato riuscendo a far si che il lettore si senta perfettamente calato in quella realtà, e riesce al tempo stesso a "trasportare" il lettore stesso tra un estremo e l'altro di quell'universo fittizio, dai ghiacci della Barriera alle terre al di là del Mare Stretto, dal nord al sud di Westeros. Inoltre, l'urgenza delle missioni dei protagonisti è palpabile, nella maggior parte dei casi, così come la misteriosità di altri destini (Arya, Sansa) aggiunge pepe sulla narrazione. Può darsi che a qualcuno non sia piaciuto, ma a me questo Libro Quarto ha decisamente soddisfatto.

Alcune note
Siamo oltre la storia della serie televisiva, se pensate che la stagione che andrà in onda nella prossima primavera 2014 rappresenterà ancora il Libro Terzo, per cui al momento non possiamo fare raffronti. Ci sono ugualmente delle cose da dire. La prima è che ci sono anche in questo libro, dei personaggi che sinceramente non si vede l'ora di osservarli trasferiti sullo schermo (nel mio caso prima di tutti Areo Hotah, ma un po' tutta Dorne, così come Braavos, stuzzicano la fantasia); si capisce molto bene che la grandiosità di tale saga non poteva sfuggire ad una trasposizione su un qualsiasi schermo, grande o piccolo, ma c'è da ringraziare che se ne sia appropriata la televisione, perché il cinema rischiava di non rendergli giustizia.
La seconda è che, si intuisce da quel che vi ho detto nel paragrafo precedente, dalla quarta stagione gli sceneggiatori della serie televisiva dovranno prendere delle decisioni che sicuramente scontenteranno qualcuno. Ma credo saranno obbligate: impossibile "mettere in panchina" alcuni protagonisti, così come fa Martin escludendo i P.O.V. di 4/5 protagonisti, è molto probabile che la quinta e la sesta stagione saranno un mix del Libro Quarto e del Libro Quinto.
Alta considerazione, che fin'ora non avevo sottolineato: la traduzione e i "formati" italiani. Sulla traduzione non mi soffermo più di tanto, perché sto leggendo in italiano e non ho letto la saga in inglese, ma so che da più parti ci sono delle critiche più o meno feroci. Ciò non toglie che l'opera nella sua complessità riesca ugualmente a risultare grandiosa e appassionante. Sui formati dei libri, ho qualcosa da dire, visto che spesso si generano anche dei fraintendimenti. Mondadori ha diviso i libri originali di Martin. Il Primo, il Secondo e il Quarto in due libri, il Terzo e il Quinto addirittura in tre. Naturalmente, si è inventata i titoli. Poi ci sono stati, per ora, i volumi unici che ricalcano le uscite in lingua inglese, per il momento per i primi quattro libri (esattamente, io che sto leggendo in questo momento il Libro Quinto, ho dovuto comprare ben tre libri). Questa tabella sulla scheda Wikipedia può aiutarvi a capire meglio. Esiste anche un volume che racchiude i primi quattro libri italiani (quindi i primi due nell'edizione inglese). Mi fermerei qui. Buona lettura.

20130826

a est del Sole, ad ovest della Luna

Sol austan, Mani vestan - Burzum (2013)

Prima di parlare di musica, alcuni aggiornamenti. Dalla prima volta in cui vi ho parlato di Varg Vikernes, decisamente un personaggio fuori dagli schemi, in occasione dell'uscita del suo disco Fallen, il suo secondo dopo la scarcerazione, sono accadute alcune cose. Sono usciti altri due dischi, Umskiptar nel 2012 e questo, a fine maggio 2013, e Vikernes, lo scorso mese, è stato nuovamente arrestato in Francia, a Salon-la-Tour, dove pare si fosse trasferito con la famiglia: sua moglie, francese, con regolare porto d'armi e iscritta al locale poligono, aveva acquistato alcuni fucili. Le autorità locali sostengono che Vikernes stesse pianificando una strage.
Nell'aprile di quest'anno, Burzum ha pubblicato il brano Back To The Shadows, affermando che sarebbe stato l'ultimo prodotto in stile black metal. Infatti, il disco del quale parliamo oggi, è un disco totalmente strumentale, ma soprattutto in stile dark ambient, suonato quasi interamente con sintetizzatori. Non si sa se questo sarà lo stile che Burzum intende conservare da qui in avanti, visto che non è la prima volta che si dedica all'ambient
Andiamo al sodo: com'è il disco? Un disco di sottofondo, senza dubbio, senza tracce che spiccano più delle altre, probabilmente anche un po' prevedibile, ma anche un po' inquietante, magari lasciandosi suggestionare dalla storia del personaggio. Alcuni pezzi (Mani vestan, Solarras, Fedrahellir, Solargudi, Ganga at solu, Hid) racchiudono un suono vicino al clavicembalo (non posso assicurarvi che lo sia veramente, o che il suono che Burzum cercava con le macchine fosse di un clavicembalo, quel che so è che a me lo ha ricordato), e questo, a mio giudizio, è un po' la chiave di lettura del disco. Sol austan, Mani vestan, è un disco che richiama il silenzio assordante dei fiordi, la maestosità dei ghiacci e del freddo, l'aria rarefatta delle fredde foreste nordiche, pur se a tentare di ricreare certe atmosfere è la tecnologia. L'incedere è, naturalmente, lento e rilassato, quasi pacificante, forse c'è solo un timido tentativo di generare una vaga atmosfera techno con Runar munt bu finna, con una base leggermente più ritmata, ma in definitiva il disco si fa ascoltare con una certa curiosità.

20130824

No One Lives Forever

True Blood - di Alan Ball - Stagione 6 (10 episodi; HBO) - 2013

Mentre Sookie, salvata da Eric e dall'intervento di Jason commando-style, insieme a Tara, Pam e Jessica, riescono a fuggire dalla sede dell'Autorità, ormai in fiamme, Bill, bevuto il sangue di Lilith si reincarna in una figura sovrannaturale. La situazione caotica presta il fianco ad una sorta di restaurazione: il governatore della Lousiana Burrell dichiara guerra totale ai vampiri, con annesso coprifuoco. Eric "libera" Pam in quanto suo creatore, e mentre lei, sconvolta, tratta male Tara al Fangtasia, le nuove forze antivampiriche fanno irruzione, in base alla nuova legge speciale emendata da Burrell, e le fanno prigioniere.
Jason, con la sua solita fortuna, girovagando in cerca di un passaggio, incontra un uomo anziano, che dimostra di conoscere la famiglia Stackhouse molto bene: Jason pensa immediatamente che il vecchio sia Warlow.
Ancora durante la fuga dalla sede dell'Autorità, Luna muore, e prega Sam di tenere Emma con sé.
Bill, nella sua versione potenziata di semi-dio (Billith, ahahaha!), richiama a sé Jessica; Eric tenta di ucciderlo, Sookie lo impaletta in pieno petto, ma Bill, come se niente fosse, si sfila il paletto e continua ad incutere timore. La frattura pare insanabile, e Bill allontana tutti tranne Jessica, la sua progenie.
Eric restituisce la proprietà della casa a Sookie, e Sookie, decisa a chiudere con i vampiri, ritira il suo invito ad entrare.
Andy è nel panico: deve crescere quattro figlie/fate, lasciategli da Maurelle. Non saprebbe come fare con delle neonate, ma la cosa è complicata ancor di più dal fatto che le quattro fate crescono a vista d'occhio. Alcide, divenuto capobranco, intreccia immediatamente una storia a tre con Rikki e Danielle.

Tutto dipende da come la si vuole guardare, la cosa. Alan Ball se n'è andato definitivamente (per Banshee), e ci si aspettava un cambiamento, in meglio o in peggio, da True Blood. Dopo due stagioni iniziali che avevano intrigato molti, la serie si è attestata su un livello abbastanza mediocre, ed ha continuato a procedere a strappi. Alti e bassi è il risultato anche di questa sesta stagione, formata da soli 10 episodi, pare, per permettere una gravidanza tranquilla alla (ex) protagonista Anna Paquin (Sookie Stackhouse), all'epoca delle riprese incinta di due gemelli (figli di Stephen Moyer, nella serie Bill Compton e regista di alcuni episodi). True Blood non riesce ad abbandonare alcune storylines completamente inutili e francamente noiose, per "dedicarsi" completamente al suo lato caciarone, splatter, addirittura camp, come se gli autori stessi non fossero ancora convinti del fatto che la serie è una dark comedy. Tutto ciò appesantisce gli episodi, e li rende poco scorrevoli: è un vero peccato, perché, se gli stessi autori, ci dessero più Lafayette, più Jason e molta più Pam, meno Alcide e Sam, meno "Sookie and her precious fairy vagina", True Blood tornerebbe ad essere un appuntamento imperdibile nel bel mezzo delle nostre calde estati.

20130823

fontane

Fountains Left to Wake - Stonerider (2012)


I georgiani di Atlanta Stonerider, dei quali ci piacque tanto il debutto del 2008 Three Legs of Trouble, sono una band che tiene decisamente un basso profilo. Niente video, nessuna pagina Wikipedia a loro dedicata, dischi che escono in sordina. Eppure, nonostante questo secondo disco (il difficile secondo disco) non mi abbia "preso e portato via" come il debutto, rimangono a mio parere una di quelle band da rispettare per il fatto che non sono una cover band, anche se suonano come un manipolo di grandi gruppi di 40, si proprio quaranta anni fa (Grand Funk Railroad, Led Zeppelin e via discorrendo), e tengono la barra dritta senza fregarsene se i riflettori si accendono sui Kings of Leon o sui Rival Sons, continuando a scrivere gran belle canzoni che pestano sodo e suonano ruock alla vecchia, ma sempre ottima, maniera. E, almeno per ora, non si "prostituiscono", scadendo nell'arena rock che strizza l'occhio al pubblico più giovane e meno esigente, che si lascia abbindolare dalla melodia facile ed edulcorata, dimenticandosi (o più facilmente non conoscendo i "fondamentali", ma qui si potrebbe aprire una lunga parentesi, e concludere riconoscendo che abbiamo una buona parte di colpa anche noi cosiddetti dinosauri) che tutto proviene dall'elettrificazione del blues.
Insomma, ogni tanto ci vogliono dischi come questo, anche se, come potete ben vedere dalle date, si lasciano nel dimenticatoio molti mesi, a volte anni. When I Was Young, un rock'n'roll selvaggio con contrappunti Honky tonk, Trigger Happy, dal ritornello catchy e dall'incedere incalzante (e che assolo!), You Don't Have to Try, classica ballad con un suono di chitarra che vi ricorderà tante cose del passato, Show Me the Light, che illustra alla perfezione la definizione mid-tempo, suggestioni southern, When the Sun Goes Down e la sua armonica, insomma, un disco che paradossalmente, suona fresco perché è un tuffo nel passato. Ed è un convincimento davvero difficile da spiegare, dato che mi ritengo un appassionato di musica a cui piace scoprire artisti che provano ad innovare, a mescolare influenze più disparate per riuscire a creare qualcosa di anche intellettualmente (oltre che musicalmente) stimolante, eppure, quando ascolto cose come quelle che suonano gli Stonerider, non riesco a rimanere indifferente.


20130822

bollitore

Sono pure a dieta, o quasi, ma siccome vedo che gli amici "inglesi" sono di nuovo on-line, volevo solo far loro sapere che ho seguito il loro consiglio. Ne ho prese tre tipologie, tutte quelle che erano disponibili al supermercato in quel momento. "Loro" sostengono siano le migliori.

strada dell'eco

Echo Street - Amplifier (2013)

Fin'ora ho sempre apprezzato la band di Manchester, e non ne ho mai fatto mistero, così come vi ho raccontato diverse volte come li ho mancati dal vivo, pentendomene ripetutamente. Come notavo in occasione delle precedenti recensioni, impressione che ogni appassionato attento ha, gli Amplifier se la sono sempre presa comoda, segno evidente di passione e al tempo stesso, di minuziosità e grande lavoro. E forse, stavolta ha ragione chi sottolinea che, per i loro standard, è passato troppo poco tempo dal precedente lavoro The Octopus, "solo" due anni. Insomma, senza girarci troppo attorno, il nuovo Echo Street, che segna l'avvicendamento al basso di Alexander Magnum Redhead al posto di Neil Mahony, e l'ingresso di Steve Durose alla chitarra (che si aggiunge a quella del leader Sel Balamir, anche voce principale), ex membro degli Oceansize, band di riferimento degli stessi mancuniani, è un disco che non si può definire brutto, ma che lascia decisamente un po' di amaro in bocca. Come si direbbe per un film, suona come decisamente irrisolto, non soddisfa fino in fondo, nonostante ci sia naturalmente la solita maestria tecnica e i soliti riferimenti di fondo (Tool, Pink Floyd, Soundgarden, ma secondo me anche molto i Genesis; ad essere pignoli, stavolta, soprattutto con la parentesi acustica di Between Today and Yesterday, dimostrano di poter ricordare perfino Crosby, Stills, Nash & Young), la solita (siano letti in senso positivo, questi "soliti") pulizia sonora che ogni tanto dà grandi soddisfazioni. Il disco suona un po' troppo pacato, senza troppi affondi, le dilatazioni strumentali sono o troppo poche oppure insoddisfacenti, il cantato di Balamir troppo indulgente, levigato, troppi la la la e pa pa pa.
Paradossalmente, la parte migliore di questo Echo Street è "relegata" nel disco extra della Deluxe Edition, che soprattutto con tre dei quattro pezzi che compongono questo dischetto, Spaceman, Sunriders e Never and Always, ci ricordano come dovrebbero suonare gli Amplifier. Probabilmente sono stato troppo esigente, stavolta, ma come dico sempre dai primi della classe è lecito pretendere sempre qualcosa di più.

20130821

il grande segreto

Big Inner - Matthew E. White (2012)

Personaggio molto particolare questo White (no relation with Breaking Bad), già Fight the Big Bull, collettivo musicale avant-garde che ha collaborato anche con Justin Vernon (aka Bon Iver), e ancor prima con i Great White Jenkins, a quanto pare una rock band. Questo Big Inner, uscito esattamente un anno fa, è stato acclamato da molte riviste straniere, e non so davvero come abbia fatto a finire sul mio lettore mp3. Fondatore pure del Patchwork Collective (collettivo musicale con lo scopo di generare una scena musicale locale) a Richmond, Virgina, luogo dove presuppongo viva, White è un tipo sensibile e spirituale (a meno che non sia tutto un grande scherzo, ascoltare la seconda metà della conclusiva Brazos, con quell'interminabile e irresistibile dilatazione psycho-blues che recita ininterrottamente "Jesus Christ is our Lord, Jesus Christ he's your friend"), che infarcisce i suoi testi di citazioni religiose senza però risultare pesante, raccontando di sé qua e là, anche dolorosamente, ma sempre senza risultare tragico. A livello musicale, c'è di tutto, suonato senza spocchia, arrangiato superbamente, quasi sottovoce, ma con grande maestrìa. Jazz, Soul, Americana, Gospel, Rock, naturalmente, riferimenti infiniti (Jorge Ben, a cui è accreditata Brazos, Jimmy Cliff per Will You Love Me, anche se in realtà di Cliff c'è solo una citazione, per di più di Many Rivers to Cross, e il pezzo è un remake di Games People Play di Joe South, ma White dice di essersi ispirato alla versione di Lee Dorsey, come riferisce Fabio Codias), anche se in verità, pare che l'idolo assoluto di questo ragazzone barbuto sia (mi vien da dire "naturalmente") l'immarcescibile Randy Newman, del quale coverizza Sail Away dal vivo, e al quale, pare, ha portato brevi manu un suo demo (a casa di Randy!). Quindi, come dire, un calderone musicale interessante, sussurrato con quella voce suadente, quasi sorprendente per uno col suo fisico, e una spiritualità "simpatica" (buddy Christ?) anziché la satira tagliente del maestro Newman. Ma, di sicuro, un disco al tempo stesso leggero ed intellettualmente stimolante.

PS grazie a Massi per l'ispirazione

20130820

il raccolto di domani

Tomorrow's Harvest - Boards of Canada (2013)

Sono sicuramente l'ultima persona che dovrebbe parlarvi di un disco dei Boards of Canada, duo scozzese di Edimburgo. Mai ascoltati fin'ora, quando ho visto questo disco inserito come "disco del mese" sul numero estivo di Rumore con un rotondo 8 su 10, come spesso mi accade, mi sono incuriosito. Solitamente, rimango scioccato, e così è stato pure stavolta: al primo ascolto mi son detto "che merda di disco", ed ho avuto seri problemi a terminarne l'ascolto. Ora, a parte che Pitchfork gli ha dato addirittura 8,3 su 10, lo so che vi dico sempre le stesse minchiate: sto invecchiando, mi sono addolcito, eccetera. Facciamo così: non ve le dirò. Vi racconto esattamente come è andata dopo. Tolgo le tracce dal lettore mp3. Dopo una settimana, ce le rimetto. E un bel giorno di sole, rimetto su Tomorrow's Harvest. E lo ascolto tutto. E poi lo riascolto. C'è da dire che si dorme alla grande eh, con questo disco. Però stavolta bisogna ammettere che non è un fatto negativo, e che si sente decisamente che i fratelli Sandison ci sanno fare. Per chi fosse ancora più ignorante di me, siamo di fronte ad un disco di elettronica, diciamo dura e pura visto che se è vero (leggo) che col disco precedente The Campfire Headphase avevano provato ad introdurre strumenti acustici, qua siamo esclusivamente nel campo puramente elettronico, sintetizzatori vecchi e nuovi, campionamenti, effetti vari, voci mascherate, rumoristica varia. Se è anche vero che i due componenti si sono presi una pausa di ben sette anni dall'ultima uscita (Trans Canada Highway, 2006), soprattutto per viaggiare, a dispetto delle note pubblicitarie e delle recensioni varie che vorrebbero questo disco post apocalittico e segnato dalla preoccupazione per le problematiche ambientali, a me l'idea del viaggio, in tutte le sue sfaccettature, intriga e propenderei per dare, globalmente al disco, un'interpretazione del genere: più che colonna sonora di un ipotetico film ("genere" che i BoC potrebbero interpretare senza nessun problema, e probabilmente con ottimi risultati) colonna sonora di un viaggio, un viaggio lungo, attraverso luoghi diversi, luoghi che trasmettono naturalmente sensazioni a volte diametralmente opposte, comunque differenti e molto varie. C'è una grande epicità di fondo, nella musica dei BoC, ritmi decisamente rallentati in questo disco, una sensazione avvolgente che, quando l'atmosfera si fa cupa, può perfino far paura all'ascoltatore, ma quando si fa ariosa può risultare talmente soddisfacente quanto una meravigliosa alba. Detto che, per me ascoltatore "grossolano" e sicuramente impreparato, ricordano sia i Kraftwerk che John Carpenter, aggiungo che se dai Sepultura, percorrendo la strada della vita parallelamente a quella della musica, siamo arrivati ai Sigur Ròs, possiamo sicuramente "dedicarci" qualche volta anche ai Boards of Canada, quando è il momento. Perché, si sa, arriva un momento per ogni cosa.

20130819

non curare nessuna ferita

Tend No Wounds - Black Tusk (2013)

Chissà, forse se avessi seguito i Black Tusk, da Savannah, Georgia, fin dai loro inizi, magari adesso sarei qui anch'io a dire che questo ennesimo EP non è troppo convincente, che potrebbe essere considerato un passo falso o un'anticipazione di futuri cambiamenti. Guarda il caso: a volte, essere dei novellini porta ad essere molto più clementi, e magari a stupirsi. Il power trio che condivide la città di origine con i già più noti, e considerati senza dubbio innovatori metal, Baroness e Kylesa, formato da Andrew Fidler, chitarra e voce, Jonathan Athon, basso e voce, e Jamie May, batteria e voce, si autodefinisce swamp metal (dove swamp, che sta per palude, richiama appunto la morfologia del circondario di Savannah), ed è il risultato, almeno a me pare, di diversi passaggi. La storia della band racconta che questa nasce dalla dissoluzione delle due band precedenti, quella crust punk di Andrew e Jonathan, e quella street punk di Jamie. Abitando, i tre, nella stessa strada, il gioco è fatto. La prepotenza hardcore punk si sente, così come si "uniscono" alla formazione del sound dei Black Tusk il metal moderno alla Mastodon (ma, devo dire, non sbaglia chi li accosta anche agli High on Fire), la vena progressive del metal ruvido alla Baroness e/o alla Kylesa (ovviamente), e la radice sludge proveniente, un po' per tutti, dai seminali Melvins.
E' probabilmente verità che con questo sei pezzi, dalla durata di venti minuti abbondanti (ma sono venti minuti incessanti, c'è da dire), "rallenta" un poco rispetto agli album precedenti, ma non mi pare che la cosa tolga potenza o impressioni meno. Vediamo dove li porterà in futuro, nel frattempo, godiamoci il "martellamento" sonoro degli "zanna nera" (Black Tusk, appunto).

terzo occhio

In Germania arriva il terzo sesso.

La palese, ennesima dimostrazione di quanto siamo indietro in Italia.

20130818

Monte Nebo

Har Nevo - The Black Heart Rebellion (2013)


Dimenticatevi le coordinate classiche del black metal, o del dark, del gothic, dell'industrial, dello sludge, del noise. Anche solo per un istante. Poi, vincete la diffidenza, e ascoltate questo secondo disco del combo belga che risponde al nome di The Black Heart Rebellion, affiliato, per così dire, al collettivo multiculturale Church of Ra, e calatevi completamente nella loro musica. Al di là del tribalismo sperimentale dei pur grandiosi Neurosis, meno metal, ma anche meno folk-etno dei Negura Bunget, tanto per determinare delle coordinate, seppur vaghe, questa band riesce da subito a generare un suono tipico, che ingloba tutti gli elementi che ho citato prima e oltre (metal, ma difficile definirli così, folk, ma da loro ai vari cantautori folk ce ne corre, dark, ma anche se in Into the Land of Another sembra di ascoltare degli Interpol nella loro - inesistente - fase indiana, è sicuramente difficile definirli anche così), e che quindi corrono un rischio, sicuramente enorme: non piacere a nessuno, amante dei generi succitati, oppure piacere e accontentare molti ascoltatori open-minded, sempre che siano alla ricerca di cose nuove, ricercate, succulente proprio perché percorrono strade inesplorate.
La componente percussiva è fondamentale, nell'economia sonora dei TBHR, e può generare perfino una sorta di fiatone, così come sembrano suggerire loro stessi nell'iniziale Avraham, ma l'atmosfera evocativa, oserei dire biblica (a partire dal titolo del disco, che è il nome ebraico del monte Nebo, il luogo dove secondo il Deuteronomio, Mosé ebbe la visione della Terra Promessa), l'insieme delle percussioni tribali, l'uso delle chitarre in modalità soft-drone, la voce di Pieter Uyttenhove (inizialmente non particolarmente esaltante come timbro, ma man mano che si prosegue con gli ascolti decisamente funzionale, e capace di un buon ventaglio espressivo, pur conservando quel sottile andamento monocorde/cantilenante), crea un insieme che, come detto, potrà interessare i più curiosi. Insomma, concedete loro quantomeno un ascolto, perché ritengo questo Har Nevo uno dei lavori decisamente meno catalogabili ascoltato negli ultimi tempi.

20130817

pallidi fantasmi verdi

Pale Green Ghosts - John Grant (2013)

E' proprio vero che ogni giorno durante il quale stai sulla Terra, impari qualcosa. Da tempo, andavo avanti (l'obiettivo, come i lettori più attenti sapranno, è quello di riuscire a presentare almeno un post al giorno) con una sorta di tesoretto: tutti i film che avevo visto, e che man mano recensivo. La mia dipendenza (relativamente recente) da serie tv, ha fatto si che veda meno film, e che alla fine mi sia ritrovato senza questa "scorta". Averle dato fondo, mi ha obbligato a parlare di più di musica, cosa che, non vorrei risultare troppo immodesto con tale affermazione, mi veniva chiesto da almeno due persone. Ed essendo "costretto" a parlare di musica un po' di più, mi sono reso conto che ciò mi ha portato ad ascoltare meglio le cose che avevo precedentemente sentito con poca concentrazione. Ecco, quindi, che "rispolvero" con ritrovato entusiasmo questo secondo lavoro solista di John Grant, personaggio quantomeno particolare, ma davvero dotatissimo.
Il primo lavoro, Queen of Denmark del 2010, ci rivelava, per quelli come me che non avevano mai conosciuto la sua band precedente The Czars, un artista capace di un songwriting sontuoso, e che bazzicava dalle parti dell'elettronica. Questo secondo Pale Green Ghosts, titolo che pare si riferisca agli olivi presenti vicino alla casa di famiglia dei Grant in Colorado, è la decisa conferma che siamo di fronte ad un musicista che affonda le sue influenze anche nella musica classica (Glacier) o quantomeno nell'uso classico del piano (anche Bacharach, per dire), ma che vive il presente, non disdegnando di gettare un occhio al passato per così dire prossimo (la title-track, Sensitive New Age Guy o You Don't Have To potrebbero essere stati musicati da Giorgio Moroder per Donna Summer). Come detto, le canzoni sono belle, spesso molto belle, a volte addirittura piccoli capolavori (I Hate This Town, GMF, It Doesn't Matter to Him).
Prima di parlare delle collaborazioni e della realizzazione di questo disco, un paio di cose sulla vita personale di John: ha ammesso, già all'epoca del primo disco solista, di essere stato dipendente dall'alcol e dalle droghe, di aver avuto problemi ad accettare di essere gay. Di recente, nel 2012, ha rivelato di essere sieropositivo (durante un concerto con gli Hercules and Love Affair), e si è trasferito in Islanda. E' proprio qui che è stato registrato Pale Green Ghosts, con musicisti quasi tutti islandesi, e con la preziosa supervisione (e il synth programming) di Birgir Pórarinsson (in arte Biggi Veira) dei Gus Gus (band nella quale ha militato anche Emiliana Torrini Davidsdóttir). C'è anche Sinéad O'Connor ai backing vocals, Sinéad che ha coverizzato Queen of Denmark (la title-track del precedente lavoro di Grant) sul suo ultimo disco del 2012, How About I Be Me (And You Be You).
Concludiamo con una veloce analisi dei testi. L'attitudine è apparentemente cazzara, sboccata, divertente, ma in realtà nasconde, e nemmeno troppo, un'amarezza di fondo (concepibilissima, viste le cose di cui sopra), e una sorta di arrabbiata riflessione sui temi portanti della vita di Grant; la malattia, l'omosessualità, il rapporto con la famiglia, con il suo passato, il suo ex fidanzato. Non ci si lasci ingannare dalla voce baritonale, accademica, quasi compassata: come lui stesso ci dice nella splendida GMF, "But I am the greatest motherfucker that you've ever going to meet".
In conclusione, John Grant è una realtà, una delle più interessanti nel mondo della musica d'autore alternativa. E Pale Green Ghosts è uno di quei dischi che non dovrebbe passare inosservato. Almeno, questo è quel che penso io.

20130816

The Diet of the Empress

La dieta dell'imperatrice - Umberto Maria Giardini (2012)

Il disco è dell'ottobre del 2012, ma sapete com'è, non è che mi pagano. Scherzi a parte, Umberto Giardini è tornato. Come Moltheni è stato in attività fin dal 1999 (ovviamente ha cominciato molti anni prima, ma quello è l'anno del debutto Natura in replay), su questo blog ne ho parlato moltissime volte (fate pure la ricerca, in alto a sinistra), e come tutti ricorderete ho avuto l'occasione di conoscerlo personalmente, per realizzare un'intervista in occasione dell'uscita del suo Splendore terrore (2005), disco che recensii in maniera entusiastica, sullo stesso magazine per cui realizzai l'intervista: tale recensione "obbligò" il caporedattore ad inserirlo nei dischi in evidenza. Questo per dire semplicemente che a me la musica di Umberto piace, ed è sempre piaciuta. Nel 2010 abbandona il nome Moltheni, ma non la musica, e si dedica al progetto Pineda, una band post-rock nella quale suona la batteria, suo primo strumento. Ma l'anno scorso, assunto il nome d'arte, appunto, di Umberto Maria Giardini, rieccolo con un progetto suo. E lasciatemi dire, seppure penserete che sia un giudizio falsato da tutte le cose che vi ho raccontato prima, che questo disco è un gran disco, e che Umberto mancava davvero alla musica italiana, anche se in pochi si accorgeranno di lui, a parte quelli che lo seguivano già, e che non sono mai troppi. 
Con un suono bello pieno, il cantautore marchigiano sforna l'ennesimo disco intenso, mantenendo il suo marchio di fabbrica nei vari pezzi, ma spingendo sulle dilatazioni, dando libero sfogo al suo amore per un certo tipo di progressive rock, fino alla sua accezione moderna, il post-rock. E si capisce fin dall'iniziale strumentale L'imperatrice, che chiarisce a chi non sapesse cosa attendersi, la gamma di suoni alla quale si va incontro. Seguono Anni luce, che potremmo definire un classico pezzo alla Moltheni, con un testo anch'esso classicamente Giardini (Latte giovane/coperto dalla panna/la tua bocca inganna/ma nella mia verità/avrei dovuto guardare agli anni tuoi/ci avrei trovato dubbi/quelli miei), Il trionfo dei tuoi occhi, la bellissima Quasi nirvana (e dopo questo trittico ci si rende conto che, anche a livello vocale, Umberto è in gran forma), che recita "amore antibiotico/antiaderente al mio cuore" e che stupisce per il ventaglio sonoro complessivo. I quasi quattro minuti di Il desiderio preso per la coda sono esaltanti: un ulteriore pezzo strumentale che gira intorno ad un riff semplice ma molto bello, che si arricchisce di strumenti e di suoni, che si stratifica formando una spirale di godimento musicale puro, soprattutto in cuffia. Si riprende con le canzoni cantate, Discographia ("colpa del fato se sono malato/ma tu meravigliosamente ammetti/che virale un po' mi infetti"), Fortuna ora, che si dilata per oltre due minuti nel finale (doppio), la parte sorprendentemente migliore del pezzo, Saga, con riferimenti alla mitologia nordica ma senza prenderla apparentemente troppo sul serio. Ecco, Saga è il classico esempio dello stile di Umberto Giardini, quei pezzi che alla fine si somigliano sempre un po', ma che sono sempre e comunque di grandissimo effetto. Genesi e mail ha probabilmente il testo migliore, il più divertente del disco. Divertente ma mai stupido: "ridi civetta/che quaggiù in città/dove peno io/l'uomo ha fretta/dice sempre no/a meno che non ci sia una vagina". E ancora: "femmina è l'amore/maschio il dolore/giungimi in ritardo/ma nel farlo lascia almeno la tua mail". Applausi. Archi a profusione e armonici mirati fanno di Genesi e mail uno dei punti più alti del disco. Il sentimento del tempo è l'ennesimo, piccolo capolavoro. Partenza sparata costruita su un assolo vorticoso ma semplice, un'introduzione prog da quasi due minuti, poi uno stop, un tempo sincopato, due strofe cantate, ermetiche e no, e poi si riprende dall'introduzione. Tutto molto bello. Gran finale con i nove minuti abbondanti de L'ultimo venerdì dell'umanità ("Magma/scendi/bruciaci/fallo/se ti va/di venerdì. Fiori/apritemi/il garage/quando/uscirò/con la mia roulotte"), altro gran pezzo, altra lavatrice al cervello, altro vorticoso giro di giostra progressive. Le chitarre, sia di Umberto che di Marco Maracas, svolgono un lavoro enorme per quantità e qualità, la batteria e le percussioni di Cristian Franchi è al tempo stesso prepotente e tecnica, le tastiere (su tutti il piano Rhodes) di Giovanni Parmeggiani punteggiano, diversificano, creano mood differenti, esaltano le emozioni che scaturiscono dall'ascolto. Disco di straordinario spessore, generatore di sensazioni profonde, ennesima dimostrazione della passione incondizionata di un musicista che possiamo definire artista senza troppi timori, che ci ricorda due cose fondamentali: si possono fondere insieme influenze diverse, generando ibridi meravigliosi, e che per fare grande musica bisogna amarla davvero, la musica. E, credetemi, Umberto Giardini è sicuramente un grande amante della musica.

20130815

A Storm of Swords

Tempesta di spade/I fiumi della guerra/Il portale delle tenebre (Libro terzo delle cronache del Ghiaccio e del Fuoco) - George R.R.Martin (2002/2003)

La storia
La guerra continua ad infuriare nei Sette Regni, mettendo in ginocchio il popolino. Robb Stark continua ad infliggere sconfitte ai Lannister, ma perde il Nord per mano di Balon Greyjoy e i suoi Uomini di Ferro. Durante la sua assenza, la madre Catelyn libera Jaime Lannister, stringendoci un patto non autorizzato, e si fa giurare dallo Sterminatore di Re che rilascerà le sue figlie Arya e Sansa, quando giungerà a King's Landing (Approdo del Re); lo proteggeranno durante il cammino, Brienne di Tarth, che ha giurato fedeltà a Cat, e Cleos Frey, cugino di Jaime e ostaggio dell'esercito del Nord. Robb deve inoltre ricostruire l'alleanza con i Frey: il suo matrimonio improvviso con Jayne Westerling è visto come un tradimento all'accordo con Walder.
Stannis Baratheon, il cui esercito è stato distrutto nella battaglia di Blackwater, riflette, insieme a Melisandre, sul da farsi, ritiratosi a Dragonstone, mentre il fido Davos Seaworth rischia di morire su uno scoglio, dove si è aggrappato durante la ritirata.
King's Landing e la corte accoglie i Tyrell con tutti gli onori: la loro alleanza è stata decisiva per la difesa della capitale, e non era affatto scontata. L'alleanza dovrebbe essere suggellata dal matrimonio tra re Joffrey e Margaery, vedova di Renly Baratheon. Sansa Stark pensa che, in questo modo, sarà liberata dal giogo che la opprime.
Oltre la Barriera, è il caos. Jon Snow si è "infiltrato" tra i bruti, e spera di entrare nelle grazie di Mance Rayder, ma non si sente affatto a suo agio nel ruolo di spia. L'esercito di Mance continua a marciare in massa verso la Barriera, e non ha intenzione di fermarsi. Il distaccamento dei Guardiani della Notte, dopo essere stati attaccati dagli Estranei al Pugno dei Primi Uomini (Sam si distingue uccidendone uno con il coltello di ossidiana regalatogli da Jon), ripiega verso il castello di Craster (Craster's Keep); lì, un gruppo di insorti, che aveva già progettato l'ammutinamento al Pugno dei Primi Uomini, saltato per l'arrivo degli Estranei, si rivolta contro il lord comandante Jeor Mormont. Il gruppo di disperde.
Al di là del Mare Stretto, Danaerys adesso ha tre navi, donatele da Illyrio, ma deve dotarsi di un esercito, mentre i suoi tre draghi crescono. Jorah Mormont le consiglia di fare tappa ad Astapor, nella Baia degli Schiavisti (Slaver's Bay), per tentare di acquistare un esercito di Immacolati (Unsullied), eunuchi addestrati alla guerra fin dalla più tenera età, e senza alcun timore. Capirà di avere un enorme potere nei suoi draghi, oltre a cambiare leggermente il suo percorso sulle tracce del regno perduto. E capirà di non potersi fidare di nessuno.

Il commento
Come mi aveva preannunciato l'amico Massi, il Libro Terzo, diviso, nell'edizione italiana, addirittura in tre (sotto)libri, effettivamente molto più lungo dei primi due (siamo oltre le 1100 pagine), dà l'impressione di "aprire il gas". E' come se Martin, dopo aver introdotto, sommariamente, c'è da dire, visto l'uso continuo di flashback, disseminati continuamente in tutti i libri, che pian piano raccontano quello che è accaduto prima che comincino gli eventi qui narrati, il mondo di Westeros e delle Città Libere, instillato il casus belli, e aver fatto detonare la guerra, e con lei l'inizio della disgregazione, continui su diversi binari narrativi ma qui si lasci decisamente andare, rilasciando plot twist a ripetizione e premendo sull'acceleratore del pulp e dello splatter. Soprattutto nella seconda parte del Libro Terzo, accade di tutto, ma veramente di tutto, e sinceramente, se non avessi avuto a portata di mano il Libro Quarto, avrei dato di matto. Il fatto che poi nel libro seguente la narrazione allarghi gli orizzonti, e si leghi, almeno agli inizi, con un filo davvero sottile a quello che l'ha preceduto, è un'altra storia.
Martin è davvero bravo a tirare tutti i fili, come detto. Da una parte porta avanti una storia dal respiro non solo epico, quanto maestoso ed intrigante fino al fanboysimo, dall'altra cesella un'infinità di personaggi, dando un'anima anche al più infimo scudiero, all'ultimo contadino, alla locandiera della quale si legge en passant, e riuscendo a dare una profondità anche a quei personaggi si principali, ma che ancora non hanno avuto l'onore e l'onere di divenire P.O.V. characters. Insomma, vi assicuro che la saga letteraria del Giuoco dei Troni, dà assuefazione molto più di quella televisiva.
E, a proposito della struttura narrativa, qua abbiamo un prologo (a cura di Chett, uno dei Guardiani della Notte) e addirittura un epilogo (per gentile concessione di Merrett Frey, uno dei millemila figli di lord Frey delle Torri Gemelle) e ben dieci personaggi P.O.V.: "esce" Theon Greyjoy, ed entrano Jaime Lannister e Samwell Tarly. Rimangono Bran, Catelyn, Arya e Sansa della famiglia Stark, oltre a Jon Snow, Danaerys Targaryen, Tyrion Lannister e Davos Seaworth.

Il raffronto con la serie televisiva
Già leggendo la storia, se siete attenti avrete già notato varie differenze. Ed è inutile sottolineare che le differenze ci sono e continueranno ad esserci (ne parlaremo ancor più diffusamente quando terminerò il libro quarto), per motivi che a volte si intuiscono, a volte bisognerebbe essere più addentro. Alcune diversità mi hanno colpito di più. La "fusione" di Gendry ed Edric Storm in un unico personaggio, e alcune cose che riguardano il personaggio di Jon Snow (non fatemi dire di più per non svelare tutto di questo libro) ed il suo "rapporto" con il fratellastro Robb Stark. Senza scendere troppo in particolari, indicativamente la terza stagione della serie si basa all'incirca sulla prima metà del Libro Terzo (così come la quarta si baserà sulla seconda metà), ma ci sono degli "sconfinamenti", che inglobano diversi accadimenti della seconda metà, alcuni anche molto molto importanti. Mi viene da supporre che, essendo il finale del libro un crescendo di avvenimenti, la cosa è venuta giocoforza, e non solo per accaparrarsi accadimenti shock per punteggiare la stagione. Altra considerazione, nonostante sappia già cosa accadrà, non vedo l'ora di vedere la quarta stagione. Tirando le somme, nonostante le varie differenziazioni, diciamo che spesso il percorso è diverso, ma l'arrivo è identico. Su questo, potete stare tranquilli.

20130814

The Impossible Guts

Il coraggio impossibile - Ntò (2013)

Ultimamente, devo ammetterlo, seguo molto meno assiduamente le vicende musicali tutte, pur continuando ad ascoltare musica vecchia e nuova; mi era quindi completamente sfuggito lo split dei Co'sang, duo hip hop napoletano da me sostenuto fin da quando li ho conosciuti. Mentre mi riprometto di parlarvi quindi anche del debutto "solista" dell'altro ex componente Luché, uscito l'anno scorso col titolo di L1, quest'oggi parliamo del primo disco di Ntò, all'anagrafe Antonio Riccardi, che, scopro informandomi in proposito, è pure nipote di Enzo Avitabile.
Il disco è buono. A tratti molto buono. Tanto più se lo raffrontiamo con quello del suo ex compare. Ntò (così come Luché) cerca di passare quasi completamente all'italiano, dal napoletano, attenua i testi "militanti" (seppur non manchino) o comunque "socialmente rilevanti", amplia lo spettro con tematiche che potremmo definire bling-bling a modo suo, non pacchiani, o almeno non del tutto, e si lancia in, prendete la definizione con le molle, "canzoni d'amore" a volte tipicamente hip hop, ma in qualche caso sorprendenti.
Ora, naturalmente i pezzi migliori sono quelli del primo tipo, e piuttosto brutte, a livello di testo, quelle, come detto, bling-bling o "d'amore" tipicamente rap. Ma è il contesto, la musica, le basi, che fa davvero la differenza. Non c'è solo il rap, ma molto altro, oltre al fatto che il disco suona decisamente molto professionale: Ntò ci ha lavorato molto, anche per mettere a loro agio i vari ospiti, e la cosa si sente. Quindi, diversi i picchi del disco. Je rappresento, un serrato rap dalla base dubstep, Se ti avessi ora, con il featuring di Enzo Avitabile, canzone d'amore e di malinconia dall'effetto straniante, tipo hip hop vs. neomelodici, Tasche piene, un classico rap forse un po' deludente dal punto di vista del testo ma irresistibile nel chorus e nella base di piano, Destino o scelta, con un doppio featuring, quello di Rocco Hunt ma soprattutto quello inconfondibile di Alioscia e i suoi Casinò Royale, dove si sente nitido fin dall'inizio il marchio di fabbrica quasi alla CRX, la conclusiva Notte straordinaria, anch'essa dall'irresistibile melodia, con un cantato decisamente all'altezza.
Produttori vari e conosciuti nell'ambito (Nazo, DJ Shablo, NTA, Oscar Prize), altri featuring (Clementino in Se ne cade la città), musicisti ottimi (Francesco Villani al piano, Giuseppe Cozzolino alla chitarra, Gianluca Brugnano alla batteria).
Copertina particolare, libera interpretazione del Tormento di sant'Antonio di Michelangelo, realizzato da Monika Natalia Mazur, che rappresenta i demoni di Ntò, che non per niente si chiama Antonio
E' giusto così. Finito un progetto, se ne comincia un altro. La carriera di Ntò è appena cominciata, anche se in realtà non è così. E il suo prosieguo si preannuncia quantomeno interessante.

20130813

fare o morire

Lo chiedo non retoricamente, magari a chi si occupa di video, di pubblicità, ma anche a chi non c'entra. Perché, a me, cose come queste fanno piangere? Tra l'altro, la canzone probabilmente è una delle più brutte che hanno fatto i 30 Seconds to Mars, ma perché, anche solo ascoltare l'accento della ragazzina con i capelli colorati di rosso, con i genitori divorziati disoccupati la cui madre aveva il cancro (che suppongo sia islandese, a occhio, dalla pronuncia), mi commuove?

una volta ero un'aquila

Once I Was an Eagle - Laura Marling (2013)

Temevo che questo momento sarebbe arrivato. Di tre dischi precedenti a questo, ho parlato solo del secondo I Speak Because I Can, del 2010, mentre del debutto del 2008 Alas, I Cannot Swim e del disco precedente a questo, A Creature I Don't Know, del 2011, non ve ne ho parlato nonostante li abbia ascoltati. Allargo il discorso, provando a farla breve: spesso, ultimamente, mi sforzo a scrivere a proposito di dischi che non mi colpiscono particolarmente, per mettere alla prova la mia personale capacità di descrivere la musica. Fin dagli inizi di questa precoce cantautrice inglese, trasferitasi a Los Angeles, ho con la sua musica un rapporto non conflittuale, ma potrei dire di parziale indifferenza. Comprendo piuttosto bene che possa piacere, e che sia oggettivamente brava, ma complessivamente le sue canzoni non mi emozionano. Quindi, tenete conto di questa cosa, nella descrizione che seguirà; se non si evince trasporto ed esaltazione, saprete perché.
Naturalmente, lei se ne frega di questa cosa, e così i suoi fan; infatti, Laura Marling procede, registra dischi, dà concerti, si evolve e matura. I quattro pezzi che aprono il disco formano una sorta di suite, tanto è vero che, oltre alla "continuità" (il tappeto di chitarra acustica che non si ferma tra un pezzo e l'altro) musicale, Take the Night Off, I Was an Eagle, You Know e Breathe hanno "generato" un mini-film, che trovate al termine della recensione. In generale, molta chitarra acustica, suonata dalla stessa Marling (altri strumenti presenti sul disco sono il cello, suonato da Ruth de Turberville, la batteria suonata dall'anche produttore Ethan Johns, e il basso suonato da Rex Horan), tra l'altro con una tecnica decisamente alta, arrangiamenti minimali ma raffinatissimi, una voce sempre più sorprendente padroneggiata con la spavalderia di una veterana (che stupisce, perché, ricordiamocelo, Laura Marling ha 23 anni), che svisa su tutto il pentagramma e stupisce in particolare sulle note basse, un songwriting non certamente usuale, che pesca dalla tradizione folk ma non solo (i paragoni più comuni sono Bob Dylan, Joni Mitchell, ma anche PJ Harvey), e fa impazzire gli amanti dell'indie. Detto della suite d'apertura, a mio giudizio si distaccano dal resto Little Love Caster e When Were You Happy?, ma, nonostante come detto il tutto rimanga per me ancora un po' "freddo", è innegabile che i registri della Marling sono vasti, e immergersi in questo disco è un po' come fare un viaggio. Amore e stati d'animo, soventi similitudini con gli uccelli (da rimarcare il passaggio "When we were in love / I was an eagle / and you were a dove" contenuto nella quasi-title track I Was an Eagle), Once I Was an Eagle è un disco delicato e raffinato, a tratti perfetto, che sottolinea il percorso di una giovane artista con una grande personalità. Continua a non essere la mia artista preferita, ma, magari a causa dei ripetuti ascolti per cercare di descrivervelo al meglio e senza superficialità, un po' mi ci sono perfino affezionato.


20130812

time will tell - editoriAle

Fa un certo effetto dire e pensare una cosa (ma non ero il solo), e dopo poche settimane, sentire che uno della Lega propone un referendum in merito. Ti domandi se non ti sei sbagliato.
Sto parlando dell'inutilità del ministero dell'integrazione.
Urge, quindi, spiegarsi meglio. Vediamo se ci riesco.
Il ministero in questione è stato inutile fino ad ora, perché è sempre stato una poltrona in più, è stato creato per la prima volta dal governo Monti, e soprattutto, mi pare decisamente che la questione non sia abbastanza sentita dagli italiani. Che, purtroppo, in molti ragionano come i leghisti, e sono razzisti, c'è poco da fare. Come che sia, il ministero in questione è ovviamente senza portafoglio, e quindi ha davvero poco potere.
Ma, oggi più che mai, c'è necessità che la politica educhi le persone all'integrazione. E devo dire che, smussate le sparate dovute secondo me all'inesperienza iniziale, paradossalmente (per me, che avevo scritto questo) Cécile Kyenge sta diventando una delle poche politiche che dice cose sensate in questi ultimi tempi.
Sono sempre più deluso da questo governo cosiddetto delle grandi intese, perché è immobile come pochi. Tra l'altro, le stesse opposizioni, Lega e Movimento 5 Stelle, mi sembrano pensare a come finire sui giornali più che a proporre una reale alternativa. Non che mi aspettassi granché, sia dal governo che dalle opposizioni, ma così è davvero inquietante.
E quindi, se ai continui attacchi razzisti, perché, diciamolo chiaramente, ai leghisti gli rode che ci sia una persona di colore nero al governo, quale che sia il ministero occupato, questa signora contrappone una visione del futuro non ambiziosa, ma semplicemente realista, dicendo che "sogna un paese multiculturale", un paese dove si possa essere "liberi di pensare e parlare diverse lingue", "perché da un punto di vista economico questo apre altri mercati e perché aiuta i giovani a fare altre esperienze, ad aprirsi", beh, a me viene da pensare che sia l'unica che abbia capito davvero dove e come stiamo vivendo, l'unica che si sia davvero resa conto in quale anno e in quale momento siamo, l'unica che giri per le strade e che si renda conto che la politica non è arrivare a fine mandato, ma servizio al cittadino e visione del futuro.
Se non vi sentite d'accordo, Matteo Salvini della Lega Nord vi aspetta ai banchetti per la raccolta delle firme per l'abolizione del ministero che adesso è della Kyenge.

20130811

le uccisioni


The Killing - di Veena Sud - Stagione 3 (12 episodi; AMC) - 2013

Seattle e dintorni. E' passato circa un anno dalla convulsa conclusione del caso di Rosie Larsen, e gli strascichi sui protagonisti sono visibili. Linden ha perso la custodia del figlio Jack, si è dimessa dalla polizia, adesso è un'impiegata della Transit Authority, in pratica ha una divisa, ma sorveglia gli arrivi dei traghetti. Ha una casa isolata, immersa nel verde, lontana dalla città; ha una storia esclusivamente fisica con un ragazzo molto più giovane di lei, un collega. Ha tagliato i ponti con le poche persone che conosceva, e non pare essere troppo in contatto neppure col figlio, al quale tanto teneva. Sembra, se non felice, non avere troppi pensieri. Eppure, ci sono ancora alcuni casi che la tormentano, se solo si ferma a pensare.
Holder sembra un altro. Abito e cravatta, è stato promosso e gli è stato assegnato un nuovo partner, un detective anziano che risponde al nome di Carl Reddick. Cinico, convinto di essere divertente e molto bravo nel suo lavoro, siccome ha pure una certa anzianità è convinto di avere molto da insegnare a Holder. Eccoli che sono sulla scena del crimine, una giovanissima ragazza che viveva per strada viene ritrovata cadavere in una fabbrica abbandonata. Stuprata e con un dito rotto, quasi decapitata. Reddick cerca di sbolognare il caso ad un collega, mentre Holder comincia da subito a prenderlo a cuore, e fa visita a Linden, ricordando delle similitudini con un vecchio caso risolto dalla sua ex collega. Il caso, al quale Linden lavorava con James Skinner, che poi ha fatto carriera e che, scopriamo, all'epoca tradiva la moglie proprio con Linden, è uno di quelli che tormenta Linden: Ray Seward (l'uomo che Linden e Skinner hanno fatto incarcerare per l'omicidio della moglie, padre di Adrian, il bambino autore del disegno al quale Linden tiene così tanto) è nel braccio della morte di un carcere di massima sicurezza vicino a Seattle, e sta per essere giustiziato.

E pensare che AMC aveva già cancellato questa serie, e solo la joint venture con Netflix ce li ha fatti ripensare. Non solo rivediamo Holder e Linden investigare e cazzeggiare insieme, ma questa nuova, terza stagione di The Killing, che si svincola dall'essere un remake di Forbrydelsen, è, se possibile, migliore, molto migliore delle prime due. E' molto probabile che, come sostengono persone più preparate di me, che il focalizzarsi su un paio di storylines, anziché "disperdere" le forze in molte sottotrame, abbia giovato a questa rinnovata serie, che tra l'altro, dopo un finale del genere, se dovesse essere davvero rinnovata per una quarta stagione, dovrebbe ridefinire fortemente il personaggio di Linden, che esce dalla terza stagione praticamente ancora più devastata che dalla seconda. Fatto sta che a questo giro, The Killing parte come un diesel, quindi come al solito, per arrivare ad un climax emozionale di elevatissima qualità, e che soprattutto dura, non voglio esagerare, se non per gli ultimi quattro, almeno per i tre episodi conclusivi. La storyline carceraria, con protagonista un Peter Sarsgaard (Ray Seward) in stato di grazia (ironia: Sarsgaard interpreta un condannato a morte nel relativo braccio, il suo primo ruolo cinematografico fu la vittima di Sean Penn in Dead Man Walking), e con almeno un paio di ottimi comprimari (Hugh Dillon nei panni di Francis Becker, la guardia cattiva, e Aaron Douglas, direttamente da Battlestar Galactica, nella parte di Evan Henderson, la guardia buona), rimane quasi completamente distaccata, quasi una miniserie nella serie, fino a ricongiungersi con la trama principale in maniera direi eclatante, e ci regala più che scintille, momenti davvero intensi e vibranti a livello emozionale.
Sempre sugli scudi Mireille Enos (Linden), sempre più bravo Joel Kinnaman (Holder), la stagione ci regala pure due sparring partner d'eccezione, Hugh Dillon (Reddick) e il per me mitico Elias Koteas (Skinner), fosse solo per la sua partecipazione a Crash, quello di Cronenberg tratto da Ballard.
Se non l'avete vista, godetevi questa stagione, che andrà in onda in Italia su Fox Crime non so quando, e rimaniamo alla finestra per un eventuale proseguimento.