No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20131218

If Nelson Mandela really had won, he wouldn't be seen as a universal hero


di Slavoj Zizek

Negli ultimi vent’anni di vita, Nelson Mandela è stato osannato perché era la dimostrazione che è possibile liberare un paese dal giogo coloniale senza cedere alla tentazione dell’autoritarismo o dell’anticapitalismo. Mandela non era Robert Mugabe. Il Sudafrica è rimasto una democrazia multipartitica, dove c’è libertà di stampa e un’economia fiorente ben integrata nel mercato globale, immune da affrettati esperimenti socialisti. Ora che è morto la sua figura di saggio e santo sembra confermata per l’eternità: Hollywood gli ha dedicato vari film; stelle del rock e leader religiosi, atleti e leader politici sono uniti nella sua beatificazione. Ma è davvero tutta qui la storia? Questa visione celebrativa nasconde due fatti importanti. In Sudafrica la vita della maggioranza povera è cambiata poco dai tempi dell’apartheid, e i diritti politici e civili sono stati accompagnati dall’aumento di violenza e criminalità. Il cambiamento principale è che alla classe dirigente bianca si è aggiunta una nuova élite nera. In secondo luogo, molti ricordano che il vecchio African National Congress non prometteva solo la fine dell’apartheid, ma anche la giustizia sociale e perfino una sorta di socialismo. Questo passato dell’ANC è gradualmente svanito. Non sorprende che i neri poveri siano sempre più arrabbiati. Quella del Sudafrica è solo una versione della storia ricorrente della sinistra contemporanea. Un leader o un partito che promettono un “mondo nuovo” sono eletti con entusiasmo, ma prima o poi inciampano su un dilemma cruciale: bisogna avere il coraggio di scardinare i meccanismi del capitalismo? Se s’intaccano questi meccanismi, si viene rapidamente “puniti” dalle perturbazioni del mercato, dal caos economico e da tutto il resto. Proprio per questo è fin troppo facile accusare Mandela di aver abbandonato la prospettiva socialista dopo la fine dell’apartheid: aveva davvero una scelta? Il passaggio al socialismo era un’opzione reale?
È facile ridicolizzare la scrittrice Ayn Rand, ma c’è un po’ di verità nel suo celebre “inno al denaro” di La rivolta di Atlante“Finché e a meno che non scoprirete che il denaro è alla radice di ogni bene, sarete voi stessi gli artefici della vostra rovina. Quando il denaro finirà di essere il mezzo di scambio tra gli uomini, allora gli uomini diverranno gli schiavi degli uomini. Sangue, fruste e fucili o dollari. Fate la vostra scelta – non ce n’è altra”. Marx non diceva qualcosa di simile quando affermava che, nell’universo delle merci, “i rapporti tra gli uomini assumono la forma di rapporti tra cose”? Nell’economia di mercato i rapporti tra persone possono apparire come relazioni di libertà e uguaglianza reciprocamente riconosciute: il dominio non è più visibile in quanto tale. Ma il problema è nella premessa implicita di Rand: che l’unica scelta sia tra rapporti di dominio e sfruttamento, mentre qualunque alternativa è considerata utopistica. Eppure bisognerebbe tenere conto del momento della verità contenuto in questa tesi: la grande lezione del socialismo di stato è che l’abolizione diretta della proprietà privata e degli scambi regolati dal mercato, in mancanza di forme di regolamentazione del processo di produzione, risuscita necessariamente relazioni di dominio e servitù. Se ci limitiamo ad abolire il mercato senza sostituirlo con una forma corretta di organizzazione comunista della produzione e dello scambio, il dominio torna più forte che mai. La regola generale è che, quando comincia una rivolta contro un regime oppressivo, com’è successo nei paesi arabi nel 2011, è facile mobilitare grandi masse con slogan che piacciono a tutti: per la democrazia, contro la corruzione e così via. Ma poi ci si trova davanti a scelte più difficili e ci si rende conto che le ingiustizie contro cui si è combattuto (la mancanza di libertà, l’umiliazione, la corruzione) si ripresentano con un aspetto diverso. A questo punto l’ideologia dominante mobilita tutto il suo arsenale per impedirci di raggiungere questa conclusione. Cominciano a dirci che la libertà democratica comporta delle responsabilità. In una società libera, ci dicono, siamo tutti capitalisti e investiamo nella nostra vita. Su un altro piano, la politica estera statunitense ha messo a punto una strategia per incanalare le rivolte popolari entro limiti parlamentari e capitalistici accettabili, come è stato fatto in Sudafrica dopo la fine dell’apartheid, nelle Filippine dopo Marcos o in Indonesia dopo Suharto. In queste situazioni la politica emancipatrice radicale deve affrontare la sfida più grande: come spingersi più avanti senza cadere nella tentazione “totalitaria”. Cioè come allontanarsi da Mandela senza diventare Mugabe. Se vogliamo restare fedeli all’eredità di Mandela dovremmo asciugarci le lacrime da coccodrillo delle celebrazioni e pensare alle promesse che non ha mantenuto. Possiamo ipotizzare che, vista la sua grandezza morale e politica, negli ultimi anni di vita fosse anche amareggiato perché consapevole che la sua elezione a eroe universale nascondeva una dolorosa sconfitta. La sua gloria universale è anche il segno del fatto che non ha disturbato l’ordine globale del potere.
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Non avevo detto niente in proposito alla morte di Madiba. Soprattutto perché mi rendo conto di non essere abbastanza preparato. Sicuramente, Slavoj Zizek lo è, e qui, in questo suo articolo per The Guardian, tradotto su Internazionale nr. 1030, espone il suo punto di vista, sempre particolare, sempre interessante.

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