No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20131103

un'ombra altissima

Tall Tall Shadow - Basia Bulat (2013)

Forza, mi sono detto, è l'ora di parlare chiaro. Ho atteso oltre un mese per dire la mia sul terzo disco della cantautrice di Etobicoke, Toronto (o, come mi disse la sua ukulelista, "trono"), Ontario, Canada. Un'artista che, come vi ho raccontato dettagliatamente, sono riuscito a conoscere personalmente, e per la quale ho preso ovviamente una cotta, ma di questo potevamo esserne sicuri già all'epoca del primo disco. Nonostante le premesse, che potrebbero precedere una recensione osannante e a senso unico, voglio al contrario aprire dicendo apertamente che tra i tre, forse questo è il suo disco meno bello. Attenzione, però: è tutto relativo, perché prima di tutto, secondo me gli altri due sono eccezionali, dopo di che c'è la questione dell'imprinting musicale (il primo disco di un'artista o di una band che ascolto è quello al quale rimango più legato), e poi c'è da tenere conto che il secondo disco è quello dove è contenuto il pezzo che, la prima volta che l'ho vista dal vivo, le ho chiesto di suonarmi la sera seguente, e lei ha acconsentito senza batter ciglio (e, se mi conoscete a fondo, sapete che una cosa del genere non la dimenticherò mai per tutto il resto della mia vita).

Tall Tall Shadow è un disco dove la Bulat prende coraggio e si butta. Perché osa, gli arrangiamenti diventano più importanti, i pezzi intimisti rimangono ma sono meno fondamentali, e addirittura inserisce un pezzo con una base, credo, quasi completamente elettronica (Someone, anche questa una canzone sorprendentemente bella).
Ma, c'è poco da fare, la classe non è acqua, e lo sappiamo: quando uno ha il dono di saper scrivere belle canzoni, possiede quel tocco innato, chiamato talento, che gli permette di comporre musica e di riuscire a trasportare l'ascoltatore in una dimensione parallela, sognante, diversa e più elevata rispetto alla vita di tutti i giorni, ecco, anche cambiando l'ordine degli addendi, il risultato non potrà che essere sempre una bella cosa.
Ecco quindi che, nonostante la co-produzione del disco sia affidata a Tim Kingsbury, bassista dei connazionali Arcade Fire, sui quali sapete come la penso, e a Mark Lawson, loro ingegnere del suono, Tall Tall Shadow, in alcuni pezzi, potrebbe "odorare" di quel genere musicale là, ma rimane molto bello probabilmente ai miei orecchi perché c'è, nel songwriting di Basia Bulat, una grazia e al tempo stesso una compattezza che riesce ad inglobare elementi tra i più disparati, ma ad arrivare sempre o quasi, dritto al cuore. Oltre a Kingsbury alla chitarra ci sono Ben Witheley al basso, e come al solito Bobby Bulat (il di lei fratello) alla batteria e Holly Coish (quella che mi disse che era di trono per dire Toronto) alle tastiere e backing vocals; ospite su Ken Whiteley (il padre di Ben) al gospel organ. Insomma, seppur non dimenticando la radice folk (It Can't Be You è suonata con un charango andino, e naturalmente non manca l'autoharp), Basia guarda avanti (come titola correttamente il The Globe and Mail per una sua intervista "Basia Bulat steps out of her comfort zone"), arricchendo la sua musica con altri sapori (per dirne una, nel finale di Wires spunta uno xilofono, se non erro), ma mantenendo la capacità di scrivere canzoni che, a volte più intimiste, a volte addirittura sfacciatamente pop (ma conservando sempre un suo caratteristico low profile), sforna un altro disco che vi farà lentamente, ma inesorabilmente, innamorare almeno della sua musica e della sua voce, of course, che, non dimentichiamolo, è un magnifico strumento.
Basia dice che il disco parla di un momento difficile, e che un paio di mesi prima di cominciare le registrazioni ha subito una perdita importante. Probabilmente il risultato sarebbe arrivato lo stesso, e quindi dispiace per lei, ma la voce, i testi, le canzoni, di questa piccola grande cantautrice, sono così pieni, densi, di sentimenti profondi, che a mio parere è impossibile rimanere indifferenti. Pezzi anche diversissimi tra di loro, come la dolce Paris or Amsterdam, la stupenda Tall Tall Shadow, la deliziosa (e probabilmente la mia preferita Wires), la pop-oriented (ma, ascoltatela bene: c'è un mondo di influenze dentro, spettacolare) Promise Not to Think About Love, la sincopata Five, Four, la cupa The City With No Rivers, la gospeleggiante (me lo sono inventato, ma secondo me funziona) Never Let Me Go, la cristallina e quasi mccartneyiana (lo ammetto, dopo un po' ci prendo gusto) From Now On, pezzi che, alla fine, sono tutti talmente belli che la mia affermazione di partenza ("il suo disco meno bello") va direttamente a farsi benedire.
Insomma, io ci ho provato, ad essere imparziale. Se non ci sono riuscito in pieno, chi se ne frega. Datemi retta: se avete un cuore, questo è un altro disco che vi farà provare gioia e tristezza insieme.

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