No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20120725

la cosa alla ciliegia

The Cherry Thing - Neneh Cherry and The Thing (2012)


Ed eccone un altro, di dischi che squarciano l'indifferenza, in questo 2012. Manco a farlo apposta, ancora una volta frutto di una mente femminile, anche se, ad onor del vero, la signora in questione è qui accompagnata, anche nel monicker, dai tre ragazzoni scandinavi (Mats Gustafsson, sax, svedese, Ingebrigt Haker Flaten, basso, norvegese, così come Paal Nilssen-Love, batteria); i tre, noti come The Thing, sono una band di free jazz che prende il nome da un pezzo di Don Cherry, e debutta proprio rifacendo pezzi suoi, proseguendo con un saccheggio da vari repertori musicali, virandoli nella loro chiave. Riallacciamoci, qui, alla storia della signora in questione: Neneh Mariann Cherry nata Karlsson, venuta alla luce a Stoccolma 48 anni fa, figlia di un percussionista della Sierra Leone e di una pittrice svedese, quest'ultima poi risposata con Don Cherry (eccoci al primo link con i The Thing), quindi suo patrigno. Anche chi fosse stato in ibernazione tra il 1989 e il 2000, conoscerebbe o almeno avrebbe sentito, almeno una volta, 7 Seconds. Ecco, il pezzo è scritto, e cantato, da Youssou N'Dour e dalla signora in questione, ed era incluso nel suo terzo disco, Man, del 1996. Neneh Cherry, dopo aver militato in alcune punk band inglesi, e nei Rip Rig + Panic, debutta come solista nel 1989 con Raw Like Sushi, un disco che, nonostante nasca grazie anche allo stretto legame che la Cherry ha con la scena di Bristol ed i Massive Attack, è distante dal suono trip-hop, personale e decisamente innovativo, partendo dall'hip-hop. Ho spesso pensato che artiste come M.I.A. e Santigold non esisterebbero, se non fosse per Neneh Cherry; ma forse è solo una mia idea. I due dischi seguenti, Homebrew del 1992 e Man del 1996, segnano una direzione meno sfacciata ma elevano la qualità del songwriting e contengono grandi canzoni; per la cronaca, sono stato un grande fan della Cherry. Sparisce dalla circolazione fino al 2006, anno in cui esce Laylow sotto il monicker CirKus, band formata da lei, dal suo secondo marito, produttore e musicista Cameron McVey, la loro figlia e il di lei fidanzato; con il nome CirKus uscirà poi nel 2009 un altro album, Medicine.
Un minimo di storia era necessaria, perché Neneh Cherry rischia di essere sconosciuta dai più giovani, e questo non è bello; è un'artista che ha fatto bei dischi, e che evidentemente non si fa condizionare dai tempi dell'industria musicale, ricercando un percorso personale. Tanto è vero che questo nuovo disco riesce a stupire anche chi, come me, si considera un suo vecchio ammiratore. La voce di Neneh, ben conservata, rappa meno ma rimane un marchio di fabbrica; le cadenze hip-hop, del resto, nel corso già del secondo e del terzo disco avevano lasciato il posto ad un cantato che accompagnava una forma-canzone raffinata. Qua, insieme ad una band che ha tecnica jazzistica superlativa, ma anche un tiro decisamente rock, la forma-canzone viene spesso destrutturata, fino a cose come Dream Baby Dream, cover dei Suicide che molti conoscono perché "usata" spesso live da Bruce Springsteen, che qui diventa una curiosa espansione jazz-psichedelica. Cover, si, perché il disco è infatti composto da sei canzoni di altri musicisti, più un pezzo composto dalla Cherry (Cashback, il cui giro di contrabbasso vi si stamperà dritto nel cervello; è il pezzo di apertura, e la scelta è decisamente azzeccata, è un pezzo che vi travolgerà) ed un altro scritto da Gustafsson (Sudden Movement). Il risultato è a tratti sconvolgente. Si riconosce la voce di Neneh, come detto, ma ci si cala in un altro mondo, fatto di tecnica, di strappi, di scatti e di rilassamenti, si apprezza il jazz come forse mai lo si era fatto prima (parlo del mio punto di vista). Questo disco è un viaggio, ed è definitivamente un viaggio da intraprendere, perché vi ripagherà ampiamente.
La lista dei pezzi, con le relative "origini", comprende, a parte quelli già citati, Too Tough To Die di Martina Topley-Bird (come dire, il cerchio con Bristol si chiude; il pezzo è sinuoso, sincopato, e la voce della Cherry lo interpreta alla perfezione), Accordion del rapper MF Doom (davvero un gran pezzo, forse il più bello del disco; i The Thing saranno portentosi, ma Neneh Cherry canta da dea - beccatevi pure il rap verso la metà del pezzo, micidiale), Golden Heart di Don Cherry (un po' troppo jam-session a mio giudizio, ma ipnotica, quello si), come detto patrigno di Neneh e ispiratore della carriera dei The Thing, Dirt degli Stooges (spiazzante), What Reason Could I Give di Ornette Coleman (contorta ed intrigante), che collaborò a lungo con Don Cherry.
Neneh Cherry è tornata. Personalmente, l'ho attesa a lungo.
Abbiate coraggio, e per una volta mettete da parte i quattro quarti. Uno dei dischi dell'anno, absolutely.

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