No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20120331

ballata per tre uomini e una donna



La cotogna di Istanbul - di Paolo Rumiz (2010)






Max Altenberg fu un ingegnere austriaco, nato a Zwentendorf sul Danubio nel 1941, figlio di Hans, che durante la Seconda Guerra Mondiale aveva militato nella Wehrmacht. Max, sposato e divorziato, con quattro figli grandi, nel 1997 si recò a Sarajevo per lavoro, poco dopo la fine della guerra. Amava quella terra e quella città, ci era stato altre volte. Quel viaggio, che iniziò con un cattivo auspicio, finì per cambiargli completamente la vita. Conobbe una donna, di nome Masa, che aveva alle spalle una storia che definire rocambolesca sarebbe riduttivo. Quella donna gli cantò una canzone, Zute dunje iz Stambola (Le gialle cotogne d'istanbul), e lui se ne innamorò perdutamente.






Malvolentieri i serbi se ne andarono

e quando la sala rimase vuota

Maja gli disse che c'era una donna

giovane, ferma, accanto alla porta,

che chiaramente lo stava aspettando.

Max alzò gli occhi e restò fulminato

da un viso forte, di Persia montana;

lei si avvicinò con passo leggero

e gli disse: "Sono Amra, la figlia

che tu non hai ancora conosciuto".

Lui la guardò, e si sentì morire

tanto era simile a chi conosceva:

stessi zigomi, stesse sopracciglia

distanti dalla radice del naso,

stessa cautela nel muover le mani.



So che la cosa non fa testo, visto che ormai mi conoscete, ma non riesco a rileggere questo passaggio del libro in questione senza piangere. Possiamo dire che sono un fan di Paolo Rumiz, giornalista, scrittore, viaggiatore, grande conoscitore di Balcani ed Oriente, avevo comprato un paio di suoi libri che mi mancavano, ed ho deciso qualche settimana fa di mettere nello zaino questo, visto che stavo partendo per un fine settimana lungo ad Istanbul, il titolo mi pareva appropriato (anche se in realtà, Istanbul c'entra di rimbalzo nella storia). Un normale Intercity italiano, da Livorno a Milano impiega tra le quattro e le cinque ore; ho cominciato a leggere il libro poco dopo la partenza, interrompendolo per sonnecchiare e, man mano che la storia si sviluppava, spesso smettevo per non far accorgere a chi era nello scompartimento con me, che stavo piangendo copiosamente. Nonostante tutto ciò, prima di Pavia avevo già terminato questo libriccino di neppure 200 pagine, che definire bellissimo è il minimo, e che conferma da una parte la passione balcanica di Rumiz, dall'altra la sua vena di scrittore capace di trasmettere grandi emozioni e di raccontare grandi storie. Curiosamente, la forma che Rumiz ha deciso di dare alla scrittura è quella di una ballata, quindi richiedente uno sforzo ulteriore, perché, come detto prima, l'espediente narrativo, il detonatore di questo amore che oserei definire trascendentale, è proprio quella canzone. La cosa potrebbe spaventare, inizialmente, ma si rivela perfino affascinante, andando avanti con la lettura. Altra cosa decisamente coinvolgente, toccante, appassionante, riguardo al libro, è che questa storia pare sia vera, il protagonista la raccontava spesso, e Rumiz essendo stato amico di Altenberg, che però non si è mai deciso a scrivere di questo in particolare (anche se, come vedrete, oltre ad essere ingegnere è stato giornalista e scrittore, proprio a proposito dei Balcani), dopo la sua morte si è deciso a metterla sulla carta, a futura memoria. La scelta si rivela decisamente azzeccata, e, seppur sia difficile rivendicare una certa mia obiettività di fronte agli scritti dell'autore triestino, il libro in questione è di una bellezza travolgente. L'amore che racconta, sullo sfondo di tutta una serie di suggestioni balcanico-orientali tanto care a Rumiz, è potente, ti abbraccia, ti avvolge, ti scuote l'anima. Ti mette voglia di innamorarti, e al tempo stesso ti mette paura, tanto può essere devastante e sconvolgente questo sentimento.

Grande libro.

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