No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20090729

returning lost loves


Alila - di Amos Gitai 2003


Giudizio sintetico: si può vedere


Storie di vita ordinarie a Tel Aviv, Israele. Ezra è un impresario (diciamo così) edile in disgrazia, che lavora con mano d'opera cinese (immigrati clandestinamente), separato dalla moglie Mali, ma la notte dorme nel suo furgone (insieme a tre dei suoi fidi "collaboratori" cinesi), posizionandolo davanti alla casa che Mali, adesso, condivide con Ilan, molto più giovane di lei e belloccio. Il figlio di Ezra e Mali, Eyal, spinto soprattutto dal padre, arrivato al momento di partire per la leva obbligatoria, si arruola nelle Forze Speciali, ma dopo poco diserta, gettando nello sconforto i genitori e facendo scattare un'indagine militare e la conseguente ricerca del disertore. Nel frattempo, Ezra lavora (al nero) alla ristrutturazione di un palazzo adiacente ad un parcheggio, palazzo nel quale vivono una serie di personaggi tutti diversi tra loro: Schwartz, un anziano reduce dai campi di concentramento, Linda, la sua domestica filippina, Aviram, uno strano uomo di mezz'età che sta sempre in vestaglia e vive da solo con un cagnolino, Ronit, una poliziotta quantomeno isterica. Non solo. Grazie all'intermediazione di Ilan, Hezi, un personaggio misterioso, schivo e sospetto, affitta un appartamento per incontrarci Gabi, donna anch'essa misteriosa, bella, affascinante (con una vistosa parrucca e una propensione verso gli stivali da dominatrix), che è completamente sopraffatta dal volere di lui. Gabi è una vecchia amica di Mali.


Meno bello, diciamolo subito, dei precedenti lavori di Gitai, personaggio israeliano che mi è sempre rimasto simpatico per il suo essere ebreo e israeliano "vero" non essendo però ottuso, Alila, ispirato dal racconto Returning Lost Loves di Yehoshua Kenaz e scritto con la solita Marie-José Sanselme, è un film corale alla Kieslowski, o, se volete, alla Altman di America Oggi, dove Gitai osa cose strane e simpatiche, come "presentare" il film con la sua voce sui titoli di testa, o anche tecnicamente non semplicissime, come suddividere il film in 40 piani-sequenza dove la macchina da presa attraversa i muri, del suddetto condominio ma non solo, creando una sorta di intimità con i personaggi che, invece, la perdono. C'è di più: c'è la volontà, forse utopica, di provare a dimenticare il conflitto perenne e a dare una vita a chi abita Israele, mostrando storie semplici, anche insignificanti, di tutti i giorni. Anche se, in realtà, non è possibile: gli episodi sono scanditi dai notiziari, dalla televisione e dalla radio, che elenca gli attentati, i morti, i kamikaze. Ci sono alcune scene bellissime e toccanti (una su tutte, forse quella che apparentemente sembra più semplice, quella di Linda che, mentre fa le pulizie, spegne la radio che sta appunto parlando di un attentato, mette musica filippina, canta, sembra felice, poi si ferma, si siede, e fa vagare lo sguardo triste), ma il risultato è diseguale e stenta a compattarsi, nonostante il grande lavoro tecnico e pure ottime interpretazioni.

Alcuni attori "fedelissimi" di Gitai (Liron Levo, Ilan), la bellissima Yael Abecassis (Gabi) che con la sua sensualità rischia di oscurare il resto del cast, e una super Ronit Elkabetz (Ronit, la poliziotta), qui in una specie di mix tra Diamanda Galàs e un personaggio di Almodovar (come nota argutamente Luca Pacilio su Gli Spietati): stenterete a riconoscere in lei la bella e forte Dina de La banda.

Per curiosi delle tecniche di ripresa.

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