No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20080718

siamo tutti islandesi


Sigur Rós + Amina, 24 novembre 2005, Firenze, Saschall

Da qualche giorno è arrivato il freddo in tutta Italia. Un freddo quasi polare, un freddo nordico. Sembra quasi che il tempo si prepari per il passaggio dei quattro “folletti” islandesi, così ebbi a definirli in occasione della prima volta che li vidi. Nonostante siano passati per due date anche quest’estate, ritornano ancora, con un album fuori da alcuni mesi, “Takk”, un disco che gli ha spalancato le porte del mainstream, dell’airplay radiofonico, che fa capire il fatto che ci sia un progetto vero e proprio dietro la loro musica. Cosa non trascurabile e assolutamente non negativa.
La struttura del Saschall, che non mi stancherò mai di ripeterlo, è decisamente la migliore del centro-nord Italia per ospitare concerti di medie dimensioni, accoglie i fans che arrivano un po’ per volta. Alle 20 in punto le Amina, ormai lo sanno tutti, il quartetto femminile che accompagna i Sigur anche durante il loro concerto, iniziano il loro set che durerà una mezz’ora scarsa, con il consueto repertorio impalpabile (detto nel senso buono del termine) e sperimentale, cosa che si può notare fin dagli strumenti usati. Diversamente dal loro impiego con i Sigur (fatto più di archi), le Amina insistono con percussioni dolci (come lo xilofono), tastiere e campionatori, thereminvox e perfino calici usati proprio come vi state immaginando, passando ripetutamente il dito sopra il bordo circolare. Leggermente soporifere, ma adatte al contesto, vagamente orientaleggianti nelle atmosfere, goffe nel ringraziare un pubblico ancora scarso ma già generoso, comunque simpatiche nella loro goffaggine.
Appena le Amina finiscono il loro set, il sipario bianco davanti al palco viene chiuso, mentre dietro fervono i preparativi, e nell’aria si diffondono suoni che richiamano gli ohm buddisti. Il Saschall si va pian piano riempiendo, fino alla saturazione. Diventa quasi caldo. Il pubblico è variegato, tendente al non-trendy. Anche questa è una cosa certamente non negativa. Si vedono tra il pubblico Lucio Dalla e Piero Pelù, indice dell’apertura del target Sigur Rós.


Circa alle 21,15 ecco le note iniziali dell’intro Takk; il sipario bianco rimane chiuso, ma si intravedono le ombre dietro ad esso. Si staglia, inconfondibile, la figura di Jónsi, quasi scheletrica, al centro del palco, la chitarra imbracciata, l’archetto per suonarla, archetto che abbandonerà solo per pochissimi momenti. L’intro si lega a Glósóli, ed è fatta: siamo, ancora una volta, nel mondo fiabesco. Il minuto e mezzo finale di Glósóli è pura levitazione. Se chiudi gli occhi, senti che non hai più peso. Che stai planando, hai disteso le ali che mai hai avuto, ma che sempre hai desiderato, e lasci che sia il vento a portarti. Quante volte hai visto i gabbiani farlo nelle giornate terse, e avresti voluto farlo anche tu. Ci voleva qualcuno che inventasse i Sigur Rós. Tengo gli occhi ben aperti e guardo il pubblico, oltre che verso il palco. Potrei lasciarmi andare anche alle lacrime.
Il sipario si apre, il concerto continua. Scorrono le loro canzoni, che ovviamente acquistano potenza e solidità dal vivo, grazie soprattutto al drumming potente, ma diventato, ho come l’impressione, meno invadente, di Orri. Al tempo stesso, c’è una pulizia nel suono che ha del soprannaturale. Il pubblico sembra sentire, stranamente, questa cosa. Stranamente, perché il pubblico italiano, si sa, è caldo ma anche scalmanato, poco incline a rispettare i silenzi. C’è come una sorta di autocensura negli applausi a scena aperta, quasi timorosi di rompere l’incantesimo, mentre a bocce ferme, a pezzi terminati, la generosità irrompe, e gli applausi diventano quasi liberatori. I quattro sono precisi, pochissime e quasi impercettibili le sbavature, se ne nota qualcuna nell’accoppiata centrale Hoppípolla/Med Blódnasir, il che, si sa, rende più umani. Certo che il crescendo di archi di Hoppípolla ti riconcilia perfino con l’orchestra di Sanremo, ha quel gusto da canzonetta che però, messo lì, ha il suo perché. I ragazzi sembrano quasi inconsapevoli della loro accresciuta celebrità. Jónsi ringrazia timidamente ogni tanto. Questo mi rincuora: non sono divenuti delle star. Come quando riflettevo sul fatto che la musica dei Sigur Rós fosse la colonna sonora utopica di un mondo pacificato, forse ho trovato un’altra utopia: la rockstar che non fa la rockstar.
Istantanee cerebrali: il suono tipo carillon di Njósnavélin; gli archi da film d’amore di Andvari. Il falsetto mai fastidioso di Jónsi, che ti guida all’esplosione di Saeglópur. Cose difficili da raccontare, tanto più da spiegare. Vanno vissute e basta, c’è poco da fare.
Eppure, i Sigur Rós non vengono dal niente, anche se, bisogna riconoscerlo, pochi gruppi possono vantare uno stile così personale, un timbro così inconfondibile, una nicchia scavata da loro, impossibile da non notare, una delle poche band che negli ultimi anni ha davvero inventato un nuovo modo di fare musica. Eppure, ci sono dei momenti dove puoi scorgere i Sonic Youth. O i Cocteau Twins in Olsen Olsen. I Radiohead in Gong. Oppure, come quando, nel finale, si richiude il sipario bianco, e rimangono le ombre e la musica, sulle note della conclusiva, turbinosa Popplagid, si possono sentire i retrogusti musicali miscelati insieme di Mogwai, Tool e, si, sto per dirlo, Pink Floyd. Sinfonici, s’intende, ma fino ad un certo punto.
Un concerto. Un’emozione lunga quasi un’ora e quaranta. Sensazione che quei quattro ti sappiano leggere dentro.
Perché ascoltando i Sigur Rós siamo tutti islandesi. Siamo tutti down. Siamo tutti ciechi da un occhio. Siamo tutti gay. E siamo felici.


Takk.

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