No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20080309

shop less, live more

Sempre da D, La Repubblica delle donne di sabato 1 marzo (un numero particolarmente ricco), altro articolo lungo ma, come dicono due amici, super-interessante per una spinta al consumo responsabile.


CONSUMI
La chiamano post-autistic economy. Esclude tutto quello di cui non abbiamo bisogno. Per molti, negli Usa, è quasi una religione
di Irene Alison
Il reverendo Billy vuole esorcizzare i demoni tra gli scaffali dei supermercati. I Compacters si pongono problemi etici come: "Ho rotto la tenda della doccia, posso comprarne un'altra?"

Caro reverendo, mi perdoni perché ho peccato. Questa notte mi sono svegliato con una parola che mi picchiava in testa come un martello: Compra! Compra! Compra! Sono corso nel centro commerciale più vicino e ho speso 55 dollari in cose di cui non avevo bisogno: il diavolo ha vinto". Nell'intimità di un confessionale online si rivelano i peccati più turpi. Chissà se, grazie al suo mea-culpa sul sito www.revbilly.com , il povero "peccaminosamente vostro, Michael" verrà salvato nell'ora buia della Shopocalypse. Il nuovo Giorno del giudizio, profetizza dal suo pulpito informatico il reverendo Billy della Stop Shopping Church di New York, sarà infatti quello dell'apocalisse del consumo: quando l'attuale ritmo di sviluppo e di logoramento delle risorse ambientali porterà il mondo al collasso. Ma non è soltanto una chiesa semiseria e radicalmente anti-consumista a sostenere che il mondo viaggia rapido verso il capolinea dell'autoconsunzione. Né i "peccatori" sono solo i 26 milioni di americani affetti, come Michael, da sindrome da shopping compulsivo. Il calcolo della "impronta ecologica" - indice statistico che misura l'impatto umano sull'ambiente, mettendo in relazione il consumo di risorse con la capacità della Terra di rigenerarle - segnala che, con le nostre automobili, le nostre corse al supermercato, i nostri carrelli della spesa troppo pieni, ci siamo infilati in un vicolo cieco. L'area di terra necessaria per rigenerare ciò che consumiamo e per assorbire i nostri rifiuti è oggi, in media, di 1.9 ettari a persona. Per sostenerci tutti, serve già un pianeta e mezzo. Che accadrebbe se sui nastri dei supermarket di Pechino passasse la stessa quantità di merce venduta in un Wal-Mart di New York? E se un miliardo e mezzo di cinesi lasciasse al proprio passaggio gli stessi 9.57 ettari di impronta di un americano? Fra trent'anni, procedendo a questo tasso di crescita, non basteranno 15 pianeti per saziare la nostra bulimia da consumo. Gli analisti della post-autistic economy, nata sulle ceneri delle ormai sorpassate teorie economiche liberiste, non hanno dubbi: l'accelerazione dei consumi per produrre beni non necessari ha distorto, nel ventennio passato, l'intero sistema economico. E l'uso spregiudicato delle materie prime ha provocato gravi danni ambientali e allargato il divario tra Occidente industrializzato e Paesi in via di sviluppo. In discussione, quindi, è l'intero ingranaggio capitalista che quotidianamente ci macina: ardere di desiderio per prodotti di cui non abbiamo bisogno, lasciarci ipnotizzare dalle esche del marketing sugli scaffali del supermercato, metterci in fila alle casse pronti a strisciare la carta di credito, produrre altri rifiuti che non possiamo smaltire. Chi è senza peccato scagli la prima pietra. Qualcuno, come il reverendo Billy, ha scelto di passare all'azione. Arrivato a Manhattan dalla California nel 1990, Billy Talen, attore e ambientalista, non si è fatto incantare dalle mille luci di New York: "Time Square era un luna park del consumo, un avamposto delle multinazionali", racconta, "ho sentito di dover fare qualcosa". La vocazione lo ha portato a cotonarsi i capelli, a indossare un clergyman e colpire al cuore, tuonando dai suoi pulpiti improvvisati "Starbucks is the devil!", riferito alla diabolica multinazionale del frappuccino. Oggi Billy - alle cui avventure è dedicato il documentario What would Jesus buy?, prodotto da Morgan Spurlock (quello di Super Size Me, nota di Ale), continua a predicare, ma, dopo quasi vent'anni e un buon numero di arresti, ha riunito intorno a sé i fedeli della Stop Shopping Church. "Il consumismo sta avendo la meglio sugli esseri umani", spiega il reverendo, "le corporation vogliono che le esperienze della nostra vita passino esclusivamente attraverso i loro prodotti. Noi, invece, vogliamo ritornare a una dimensione autentica. Ricordare ai bambini che l'amore è il regalo più economico". Per farlo, oltre a esorcizzare i demoni tra gli scaffali del Wal-Mart o a mettere in croce Mickey Mouse, i seguaci di Billy difendono i negozi indipendenti dall'imperare del franchising, si schierano al fianco dei piccoli produttori in lotta contro i supermall e oppongono resistenza al progressivo incedere della gentrification. Per qualcuno, però, non basta ancora: i Compacters, attivisti nati negli Usa, hanno fatto una scelta più radicale. Se il consumismo sta distruggendo il mondo, l'unica salvezza è smettere di comprare: loro hanno cominciato con l'idea che, dilatando nel tempo il Buy Nothing Day ideato nel 1992 dal pubblicitario Ted Dave e lanciato attraverso il magazine canadese Adbusters, potevano disintossicarsi dallo shopping. Due le regole fondamentali: non acquistare niente (eccetto medicine, generi alimentari di prima necessità e prodotti per l'igiene personale) e, invece, prendere in prestito, barattare o, a mali estremi, comprare usato. Contando sullo spirito rivoluzionario che sperano di aver ereditato dai padri pellegrini del Mayflower Compact (primo patto politico-religioso sottoscritto nella colonia di Plymouth nel 1620), i Compacters attutiscono l'impatto ambientale e socioeconomico del loro passaggio sulla Terra chiamandosi fuori dalla corsa al consumo: "Riciclare non è abbastanza", dice John Perry, uno dei fondatori, "noi miriamo al cuore del mercato, prima che il consumismo ci distrugga". E, mentre centinaia di migliaia di persone continuano a mettersi in coda alla cassa, i Compacters cercano di districarsi in dilemmi morali come "mi si è rotta la tendina della doccia, posso comprarne una nuova?", in grado di mobilitare - attraverso il loro blog su Yahoo - tutti gli ottomila membri della comunità. Tra le mura del suo appartamento di Manhattan, anche Colin Beavan, scrittore quarantatreenne meglio noto come No Impact Man, viaggia sulla stessa rotta: dalla fine del 2006 vive, con la moglie, la figlia e il cane Frankie, cercando di azzerare il proprio impatto ambientale. Niente carne, niente spazzatura, niente emissioni di diossido di carbonio. Abolite anche plastica, tv e carta igienica. Via libera, invece, al monopattino e al cibo bio. Per i "forzati della toilet paper" ci sono però soluzioni meno drastiche. "L'obiettivo, oggi", spiega l'economista Alberto Castagnola, tra i fondatori, a Roma, della Città dell'Altra Economia, primo spazio europeo dedicato al commercio a basso impatto e all'equa distribuzione dei profitti, "è il consumo critico: valutare ogni oggetto che si acquista, domandandoci se, per produrlo o smaltirlo, si arrecano danni all'ambiente, alla salute umana o ai contesti sociali di altri Paesi". Per uno shopping consapevole sono nati, su Internet, database come Alonovo ( www.alonovo.com ), che integrano le informazioni sul livello di sostenibilità delle multinazionali. Comprando online attraverso Alonovo si può valutare, oltre a prezzo e qualità della merce, anche l'impatto ambientale di chi la produce. Sempre in rete, spuntano esperimenti di imprenditoria alternativa come le Blackspot Sneakers, scarpe vegane ed ecosostenibili. Prodotte da una piccola fabbrica portoghese, le scarpe - in fibra organica trattata senza l'impiego di prodotti chimici - sono il primo passo di una più vasta Blackspot campaign. Missione, creare una cooperativa mondiale di consumatori in grado di riequilibrare, attraverso l'uso condiviso di un marchio open-source, lo strapotere delle multinazionali. Le 25mila paia di sneakers vendute fin qui non sono forse abbastanza per far tremare colossi come Nike, ma, dove non arrivano le scarpe, possono spingersi le più incisive strategie dei Culture Jammers. Scrittori, ambientalisti, economisti, pubblicitari anarchici: i Jammers sono la nemesi delle corporation, i Robin Hood che osano sfidarle sul loro stesso terreno. Stravolgendo in chiave paradossale le campagne dei grandi marchi, evidenziano le strutture di potere socialmente ed ecologicamente negative annidate nella comunicazione delle corporation. Dai Re-Code, web-service gratuito che crea codici a barre da sovrapporre a quelli dei prodotti in vendita per ristabilirne il "giusto" prezzo, fino al brand fantasma Yomango. Più che un marchio, un'utopia, Yomango, "giovane, ribelle e spregiudicato" come una qualsiasi marca di jeans, è un'etichetta che non prevede la produzione di alcuna merce: si applica solo agli oggetti rubati.

2 commenti:

Unknown ha detto...

Sono pazzi questi americani... come disse qualcuno.

Anonimo ha detto...

mi verrebbe da dire...reverendo billy santo subito!!!

ci siamo costruiti una bella società.
si mangia più per abitudine che per fame,poi ci si rimpie di sensi di colpa decidendo di smaltire con palestre o diete particolari.infine ci inkazziamo perchè siamo costretti a fare quattro passi a piedi,per aver trovato posto a 500 metri di ditanza...mettiamoci anche i ventenni che fanno uso di viagra,e ci accorgiamo di come quel articolo sia TRAGICAMENTE realistico.

punkow