No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20080219

polisario


Ne avevamo già parlato, ma è bene non abbassare la guardia. In parecchi ancora ignorano la causa Saharawi, per cui, grazie all'amica Susy che ha gentilmente copiato il pezzo dal Venerdì di Repubblica di 2 settimane fa, vi posto questo articolo un po' lungo, ma tutto sommato interessante, per tenere vivo l'interesse. C'è un parallelo tra italiani e saharawi che non è completamente condivisibile, ma su quello giudicherete voi.

Colgo l'occasione anche per dire che dal 1997, ogni estate nei mesi di luglio e agosto, anche il comitato di gemellaggio di Rosignano Marittimo (il comune dove abito), ospita 10 bambini saharawi; chi volesse fare un incontro e/o esperienza, contatti pure il nr. 0586 764189, lasciando il proprio nr. di telefono per essere contattato dai volontari.


“I loro figli vengono in vacanza da noi. E noi andiamo in vacanza da loro. Senza contare i nostri cinquecento Comuni che hanno siglato una fratellanza speciale con i campi profughi di una “nazione” scacciata dai marocchini e rifugiata in Algeria”

SAHARAWI
E nel deserto l’Italia ha trovato il suo popolo gemello

(di PAOLA ZANUTTINI)

Tindouf (Algeria).

Che l’Italia abbia una passione per i gemellaggi con paesi e città stranieri, spesso remoti e sconosciuti ai più, è cosa nota: questa suggestiva fratellanza è segnalata all’ingresso di ogni comune, o quasi, della Penisola. E’ più inaspettato scoprire che almeno cinquecento municipi italiani sono gemellati con i saharawi, anche perché a questo popolo, un tempo di nomadi e oggi di rifugiati, manca la materia prima per fare i gemellaggi: i paesi e le città. Dall’occupazione marocchina del Sahara Occidentale, nel 1975, vivono in Algeria, nei campi profughi: prima erano tende, oggi sono sempre più casupole di sabbia. Che se piove si spappolano, come nell’inondazione del 2006. I cinquecento comuni gemellati, gli altrettanti bambini saharawi che da oltre vent’anni vengono ospitati da famiglie e organizzazioni italiane per le vacanze (nel 2008 saranno seicento), le 23.000 pagine web srotolate da Google se si digita “popolo saharawi”, il migliaio di “viaggiatori solidali” che ogni anno visitano campi profughi e dintorni raccontano di un’attenzione e una diplomazia opposte e parallele a quelle dei governi e degli organismi internazionali, che di questo scampolo della decolonizzazione non si curano molto.
Nel 1964 l’Onu, che ha più volte sancito il diritto di autodeterminazione dei saharawi, aveva sollecitato la Spagna a lasciare il Sahara Occidentale dopo ottant’anni di occupazione e ad indire un referendum per far decidere alle popolazioni locali il loro destino. La Spagna si prese il suo tempo e nel 1974, viste anche le sollevazioni indipendentiste, lasciò. Ma invece del referendum fece un accordo segreto con Marocco e Mauritania (che poi si ritirò), cedendo l’amministrazione della colonia in cambio dei soliti accordi economici: in questo deserto pietroso si estende il secondo giacimento di fosfato al mondo, le prospezioni petrolifere sono molto promettenti e, a Ovest, la costa è pescosissima.
Dal 1980, un muro di sabbia, sassi e mine, voluto da Hassan II, incline a concedere l’autonomia ma non l’indipendenza, come per altro suo figlio Mohammed VI, divide per 2400 km i territori occupati dal Marocco da quelli liberati dal Polisario, il fronte di liberazione saharawi. Sembra dividere il niente dal niente, ma separa chi è rimasto dagli sfollati. Nella zona occupata, tortura e ogni altra violazione dei diritti umani sono all’ordine del giorno, specie da quando, nel 2005, è esplosa l’Intifada. Non violenta, però.
Il fronte di liberazione, il presidente Abdelaziz con l’uniforme militare, l’economia comunitaria, un fervore da stato nascente che resiste ai trent’anni di oblio dell’agenda internazionale possono attivare in chi arriva qui una macchina del tempo che riporta agli anni Sessanta. Il dodicesimo congresso del Polisario, celebrato a Tifariti, capitale fantasma della Repubblica araba saharawi democratica nei Territori liberati, che assomiglia inguaribilmente a un set dimesso, mette in scena un repertorio da amarcord politico.
Dalla nutrita ala femminile della platea si levano ripetuti zagharid, gli stessi ululati di gioia (o di battaglia) scanditi dalle donne insorte di La battaglia di Algeri. I 250 delegati esteri di quello che un tempo si chiamava internazionalismo proletario (inclusi i rappresentanti del Pd, Rifondazione e Comunisti italiani), fanno interventi, spesso interminabili, in cui le parole oppressione, liberazione, a volte viva la lotta del popolo saharawi! Sono pronunciate in tutte le lingue. I compagni d’antan e i no global di oggi intrecciano analisi discordi e bisogna ammettere che i secondi sono più pragmatici. Una spagnola del Partido popular lancia invettive da pasionaria contro l’indifferenza europea: “Propaganda elettorale” commenta una connazionale. “Da noi succede sempre così, chi è al governo se ne frega dei saharawi, e chi è al’opposizione fa casino”. Si parla anche di riprendere le armi visto che dal cessate il fuoco del 1991 la strategia delle trattative internazionali non ha portato a niente. Anche il round di colloqui tenuti all’Onu dal 7 al 9 gennaio non ha sbloccato la situazione, il referendum è ancora in alto mare. Ma con che mezzi possono fare la guerra al Marocco 158 mila rifugiati, senza contare quelli dei Territori occupati (di cui nessuno sa il numero) che vivono degli aiuti internazionali? “Abbiamo 35 carri armati presi ai marocchini nell’80, durante la battaglia dell’Ouarkziz” dice Mariem Salek Hamada, ministra dell’Istruzione. “E le guerre non si vincono con le armi ma con la padronanza del territorio. Nessuno conosce il deserto come noi”. L’affermazione non sarà strategicamente inappuntabile ma svela come sono le donne saharawi. Determinate, autonome, partecipi alla cosa pubblica, laiche: “La fede serve a proteggere come i vestiti, quindi non deve stare troppo stretta” sentenzia Mariem. La guerra non si farà, ma la distrazione sulla questione saharawi è abbastanza sconsiderata. I campi profughi sono il terreno di coltura privilegiato del terrorismo internazionale, Al Queda fa proseliti in Algeria: per quanto tempo si riuscirà a tenere sotto controllo la frustrazione dei giovani che vanno a studiare all’estero – Cuba, Spagna, Italia, un tempo la Russia – e quando tornano non sanno che farsene delle loro lauree? E tutti quei bambini che vengono in vacanza in Italia e in Europa, dove si stupiscono per l’acqua che scende dai rubinetti o per i soldi che escono dai bancomat, non trasformeranno mai in rabbia la loro intimidita meraviglia? “Siamo un popolo unito, stanco di aspettare, ma ancora pacifico, per questo Al Queda non ha fatto breccia qui” dice Mohamed Mouloud, ministro della Gioventù. “Ideologia e integralismo non sono cose per noi: i nomadi pensano alle cose pratiche, Ma il problema è l’attesa infinita, la disoccupazione, la mancanza di futuro. Le vacanze all’estero fanno bene ai nostri bambini per molti versi: sfuggono il caldo e la malnutrizione, il rapporto diretto con l’Occidente previene l’astio e gli effetti della propaganda negativa e il confronto fra noi e voi li educa alla frustrazione”. I piccoli saharawi in gira sono bambini modello: diligenti, allegri, curiosi. Detestano le verdure, che non hanno mai mangiato, ma poi si abituano. Adorano mozzarella e pasta ma poi, come racconta Simona Ferraiolo, cooperante del Cisp, un’ong italiana che integra e monitorizza la distribuzione degli aiuti alimentari nei campi, uno su dodici è celiaco perché la loro dieta tradizionale è a base di orzo, mentre il Wfp (World Food Program) li riempie di farina, cioè glutine. Dice la cooperante italiana che l’amicizia, molto traversale e forse un po’ paternalistica, fra noi e i saharawi è facilitata da una diversità che non è tanto differente. Sono musulmani ma laici, profughi ma organizzati 8 i loro campi sono un esempio di ordine e dignità, per quel che consente la situazione), hanno combattuto col Marocco ma se vincono il referendum sono dispostissimi a convivere con i coloni marocchini giunta con la Marcia verde voluta da Hassan II, sono governati da un fronte popolare, ma la loro costituzione contempla la proprietà privata. Rassicurano, insomma. E, aggiungiamo noi, hanno una consuetudine a subire soprusi in cui un italiano s’identifica bene: “Da trent’anni, ogni mese, nel paniere del Wfp, troviamo solo 3 kg e mezzo di farina, 2 di lenticchie buone per le capre, 1 di zucchero e un lt d’olio” protesta Buhobeini Yahia, presidente della Mezzaluna rossa saharawi. “Non si resiste trent’anni con un’alimentazione d’emergenza. E la distribuzione diminuisce, mentre i costi di gestione del Wfp crescono. Per il 2004-2006 erano previsti 40 milioni di dollari in aiuti: 23 sono andati per i prodotti e 17 per le spese di logistica”.

Da Il Venerdì di Repubblica 8/2/2008

Nessun commento: