No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20060720

the big chill


Ben Harper & The Innocent Criminals + Piers Faccini + Guests, 16/7/2006, Pistoia, Piazza del Duomo, Pistoia Blues

Eccoci a Pistoia, di nuovo a Pistoia, eccoci di nuovo a vedere Ben Harper. Questo Pistoia Blues che da anni non si capisce cosa abbia di blues, questo Ben Harper che da un po’ di tempo non capisco più perché continui a chiamarsi Ben Harper. Un po’ come quelle band storiche che, abbandonate dai componenti importanti, continuano ad usare il vecchio e glorioso nome, anche Ben Harper comincia a farmi questo effetto. Il Festivalbar, l’improvviso amore per i tatuaggi, la moglie famosa, il disimpegno socio-politico (per uno che aveva scritto Excuse Me Mr., e che aveva voluto quel video), per poi riscoprirlo all’indomani di Katrina e il disastro di New Orleans e lanciare l’anticipo del disco nuovo “Both Sides Of The Gun”, il pezzo Black Rain. Il successo, planetario e assoluto, l’abbandono lento ma inesorabile della chitarra ma soprattutto della sua leggendaria posizione seduta, dove incantava con la sua Weissenborn, per un atteggiamento da frontman e da rockstar, lui, una volta così timido da ringraziare a fatica, lui, che sussurrava i suoi pezzi toccandoti il cuore e i gangli, adesso strilla e falsetta, posseduto dal fantasma di Al Green.

Dice, certo, se inizi una recensione così, di certo non possiamo aspettarcene una positiva. E infatti. Non dovete aspettarvi nemmeno una cattiva recensione. Dovete aspettarvi un atto di denuncia. Perché il vostro cronista preferito si è stancato di dare un’altra possibilità, una prova d’appello. E’ giunta l’ora di gridarlo ai quattro venti, di ribellarsi con le parole, l’unica arma che ho.

Calma. Il caldo è attenuato da una leggera brezza, e mi apposto in cima alla tribuna centrale aspettando la sera. Sul palco la vecchia conoscenza Nick (ricordate VideoMusic?) introduce alcune band vincitrici del contest del Pistoia Blues, tre pezzi ciascuno e via, qualche band classic blues, qualche band da sagra rionale. Non ricordo neppure un nome. Un po’ più tardi, un breve set di Piers Faccini, chitarra e voce, un qualcosa che ricorda un Damien Rice blues. Bravino, ma nonostante le premesse sto qui e aspetto Ben. Alle 21,30 arriva Harper con gli Innocent Criminals, e con la trasmissione del pensiero cerco di ricordargli che 7 anni fa era già stato qui e, insomma, vedi tu. Attacca Steal My Kisses giocosa, pure troppo: scelta discutibile, tra i pezzi vecchi, non moltissimo ma nemmeno recenti, la meno profonda. Segue Diamonds On The Inside, e la cosa diventa già scontata. Da notare che la presenza del chitarrista “aggiunto”, Michael Ward, si fa subito notare, come del resto chi lo ha preceduto, distruggendo una delle poche cose buone del pezzo che dava il titolo all’album del 2003, l’assolo. Le seguenti Burn To Shine e Glory & Consequence sono lo specchio esatto del cambiamento profondo del mezzosangue californiano: gli arrangiamenti sono ridondanti ma allo stesso tempo superficiali emotivamente, puntano più alla quantità (di suono) che alla qualità (di emozioni, appunto); e non c’è niente da fare, tastiere e seconda chitarra conferiscono alla band lo status, appunto, di band, ma non hanno valore aggiunto, anzi. Jah Work, un pezzo che, all’epoca della sua uscita lasciò tutti basiti, e che doveva la sua forza ad uno stile reggae di bassissimo profilo, che dava spazio alla profondità dei toni bassi della voce di Harper, diventa un pezzo dub dal dubbio impatto, e la salva solo il suo essere mixata in una medley con la profetica Exodus di Bob Marley.
Le aspettative ormai sono ridotte al minimo, mentre la stragrande maggioranza della piazza, piuttosto piena (anche se il mio tentativo di vendere un biglietto di avanzo a metà prezzo, poco prima dell’apertura dei cancelli si era rivelato vano), è in delirio. Parte un quartetto di pezzi che non mi innervosisce solo perché sono diventato una persona abbastanza calma in vecchiaia: la scontatissima e prevedibile Waiting For You, da accendino, l’altra ballatona Morning Yearning che, come già detto in sede di recensione, perde la sua forza nell’insieme forzato di basso, batteria, tastiere e coretti (ci manca solo Leon che suona il triangolo e poi siamo a posto), l’inascoltabile Engraved Invitation, forse uno dei pezzi peggiori del disco nuovo, che però permette a Ben di esibirsi in strilli alla Rocky Roberts, e Please Don’t Talk About Murder While I’m Eating, una canzone della quale mi piace solo il titolo, dove Ben continua imperterrito ad urlare senza costrutto.
Si siede ed imbraccia la lap steel per fare un altro classico, Ground On Down, ma anche qui non ci siamo, la versione è pessima, non ha profondità. Black Rain perde lo smalto del disco e non sarebbe nemmeno molto divertente, musicalmente parlando (del resto, non fare il Jamiroquai se non lo sei), se non fosse per un assoletto di Juan Nelson, sempre impeccabile al basso e ai cori. Gran personaggio in tutti i sensi.
Ecco With My Own Two Hands, con una coda interminabile e Harper a sobillare la folla con l’ormai conosciuto gesto delle due mani aperte e sollevate verso l’alto. Il momento, sottolineato dal significato della canzone, è in realtà molto bello e quasi commovente. Pecco di superbia e penso, tenendolo dentro, quante di queste persone stanno realmente dando il giusto significato a quello che stanno facendo. La partecipazione emotiva e positiva ad un concerto finisce quando si fanno certe cose solo per egocentrismo e voglia di mostrarsi. Ci torniamo dopo.
Si chiude la prima parte, ma è solo questione di poco.

Ecco il momento che, a mio parere, chi lo ama attende con ansia. Rientra da solo, si siede, imbraccia la chitarra classica. Waiting On An Angel è paradisiaca, così come Power Of The Gospel. So che sto per dire cose già dette, ma il punto è sempre quello, anzi sono due, molto semplici.

Primo: quando Ben Harper, il fratello vecchio (grazie Iacopo), sussurra i suoi pezzi, nessuno può resistergli. Nessuno. Nessun cazzo di band emo da serial americano tardo-adolescenziale, nessun cazzo di nuovo cantautore. Nessun politico, nessun no-global, nessun donna e perfino nessun uomo. Nessuno.

Secondo: una splendida piazza, un bel teatro, un’arena storica, un palazzetto ultra-moderno, migliaia di persone in silenzio, e un uomo con la sua chitarra con la sua voce, la sua musica e le sue parole che ti trapassano il corpo e l’anima e ti toccano fin nel profondo. Magia. Magia pura. E invece niente di tutto questo è più possibile. Bisogna fare gli urletti, fischiare, gridare rompendo l’atmosfera meravigliosa e anche parecchio i coglioni, essere a tutti i costi protagonisti. Ecco l’egocentrismo da concerto rock. Sono stufo marcio. Punto. L’applauso trattenuto per esplodere alla fine dell’ultima pennata sarebbe come trattenere un orgasmo da favola. Mi chiedo se, invece di educazione alla fruizione della musica di un certo tipo, non basterebbe solo un po’ di educazione sessuale in più. Sublimare e godere. E invece no. Ecco, ci sono tornato, l’ho detto.

Sarà per questo che quando imbraccia finalmente la Weissenborn per regalare la storica Pleasure And Pain, accolta da una piazza un po’ spiazzata, forse per l’antichità della reliquia, la versione che ne esce non mi piace moltissimo. Troppo alta, poco intensa anche questa. Peccato Ben.

Rientra la band, ed è Amen Omen, più la sento e meno mi piace. E’ solo una mezza ballad ruffiana, niente di più. Vedo ragazze agitare e ondeggiare le mani come al Festivalbar, o come al congresso di Comunione e Liberazione. Mi riallaccio al concetto espresso in occasione delle mani in alto durante With My Own Two Hands.

Un’altra pausa, si cominciano a sentire i colpi di percussione di Leon Mobley che piazza uno dei suoi assoli tribali per introdurre Burn One Down, e ci scappa anche l’accensione di un bel cannone tra Leon e Juan, ma ormai c’è molto clima da stadio (c’è spazio pure per il tormentone sull’aria di Seven Nation Army urlata in coro dalla folla osannante, e qui davvero rischiano di cadermi le palle) e quindi il tutto sembra un baraccone, un circo. Adesso ho paura. Si conclude con il peggio del peggio, Better Way, un pezzo profondamente inutile, dove Ben Harper, si, questa volta il fratello giovane, trova il coraggio addirittura di rotolarsi per terra per urlare le ultime strofe.

Saluti finali. Mi scorrono davanti le immagini scabrose di uno striscione srotolato dalla band dove una tizia manda un bacio a Ben, della chitarra a doppio manico sfoderata senza motivo da Ward ad un certo punto, di Ben con una bottiglia di vino in mano che la agita, del solito discorsetto dove ringrazia chi gli compra i dischi.
Stridono i ricordi di qualche parola su temi socialmente rilevanti e i complimenti di stasera per la Coppa del Mondo di calcio. Qualcosa è cambiato, e magari sono proprio io.

Mi avvio verso la macchina, e se non fosse per l’amico che mi accompagna mi sentirei solo. Ben Harper non riesce più a scaldarmi il cuore. Mi allontano, e non sono una persona più ricca. Ben Harper forse si. E’ questo il problema.

7 commenti:

garaz ha detto...

ma almeno il "petto indice" l'ha fatto??

lafolle ha detto...

(hai scelto un'immagine veramente spettacolare!)

jumbolo ha detto...

bella lì mau
garaz lui no questa volta
livio, ho fatto come fede quando sceglie le foto di prodi :))

Anonimo ha detto...

Più stringata, che non gli entra sulla lapide (musicale). Dan

jumbolo ha detto...

:))
bella dan!

Anonimo ha detto...

mi sono emozionato nel leggere la rece!
...Peccato preferirei emozionarmi nell'ascoltarlo!
Grazie Ale!


Aig.

Anonimo ha detto...

se non ti conoscessi mi verrebbe di darti del pirla per essere tornato a vederlo