No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20060404

Colombia gen 06 - 48


Holiday in Colombia 32
5/2/2006 Don’t Cry For Me (Argentina)

Nonostante il letto sia solo un materasso per terra, dormo alla grande, come già detto esclusivamente bocconi, e mi svegliano che sono le 11 passate. Evidentemente un materasso vero, o quasi. Bagno, colazione robusta, poi tutti (Io, Juli, Renata, Juan Pedro e le gemelle) in macchina verso il terminal dei bus di Rosario, che non è così lontano. Io e Juli scendiamo e salutiamo, lei rivedrà tutti quanti presto, fanno parte della sua famiglia, io chissà se e quando, eppure quella più dispiaciuta sembra proprio Juli. Mi spiega, come se ce ne fosse bisogno, che ogni volta che lascia le gemelle è così, è triste. Sento un misto di sapori, in bocca e dentro la testa, indefinibile. Per prima cosa, ritiro e pago il biglietto del mio passaggio fino a Retiro, Buenos Aires, già prenotato la sera prima. Il vettore è buono, mi dice Juli. Poi, ci informiamo sul passaggio di Juli per Arteaga, giro degli sportelli adibiti, alla fine risulta che dovrà fare un cambio. Quasi assurdo, per nemmeno 150 chilometri. Distanze che ormai sembrano ridicole. Partirà un po’ più tardi di me. Compro un po’ d’acqua per il viaggio, sono quasi le 13, il mio bus parte a quell’ora. Ci avviciniamo al bus, appena individuato, carico il bagaglio, ci salutiamo un po’ troppo sbrigativamente e salgo, prendo posto al piano superiore. Come sa chi mi conosce, mi commuovo facilmente. I Ray-Ban grandi nascondono gli occhi umidi, e Juli, forse capendolo, abbandona la plataforma appena il bus si muove. In quell’abbraccio che ci scambiamo prima di separarci, ci sono la gioia per esserci conosciuti di persona dopo circa cinque anni di e-mail, le discussioni di un mese in giro, anche quelle tese, le richieste di scusa, il mio grazie per avermi insegnato uno stile di vita e di viaggio fino ad adesso a me sconosciuto, il mio rispetto per una splendida persona più giovane di me di quasi 20 anni, ma incredibilmente capace e matura, emancipata, piena di voglia di vivere, politicamente sulla mia stessa lunghezza d’onda, capace di indignarsi per le mancanze di rispetto di ogni tipo, dalla più grande alla più piccola; tutto quello che avrei voluto dire alla sua famiglia e che non sono stato capace di dire con le parole. Una sera le ho chiesto se ero come si aspettava che fossi, o se ero molto diverso, e se in caso, in quale maniera. Mi ha risposto che ero esattamente come si aspettava.
Appena sul bus mi arriva un sms da mio padre: abbiamo vinto 2 a 1 contro il Messina. Vorrei esultare, dirlo a Juli che mi prendeva in giro perché pareggiavamo e perdevamo da quando eravamo in giro. Mi limito a stringere i pugni, la crisi è passata. Dopo 10 minuti me ne arriva un altro, sempre di mio padre: “2 a 2, mi ero sbagliato”. Quando arrivo a casa lo strozzo. Il tetto del bus sfrega quasi violentemente contro le fronde degli alberi che costeggiano i viali di Rosario. La città è grande, fa un milione di abitanti. Mi accorgo che ho conosciuto pochissimo l’Argentina, guardo gli angoli delle strade e cerco di imprimerli nella memoria con un po’ di commozione restante. Devo tornare. Si, devo proprio tornare. Che poi non è esattamente il verbo giusto. Si torna dove si è già stati, ed io, qui, ci sono stato praticamente solo di passaggio. Penso a casa, al lavoro che mi aspetta, ma soprattutto, a quando posso prendere le ferie per tornare. Eh si, devo proprio tornare.
Sono 4 ore di bus comode comode, la giornata è splendida e calda, soleggiata, l’autostrada dritta, e sul bus danno un film che ho già visto, “Mambo italiano”, una commedia gay, lo guardo per non diventare troppo triste, sorrido spesso. Entriamo nella capitale, è domenica e la gente usa perfino gli scampoli verdi dentro gli svincoli delle rampe autostradali per fare il pic-nic e rilassarsi. Enorme Buenos Aires. Arriviamo al terminal dalla parte del porto, ripasso mentalmente le istruzioni di Juli, scendo e ritiro il bagaglio, la tensione mi fa quasi litigare con l’addetto che mi guarda malissimo. Porca miseria, non ho più nemmeno una moneta per dargli la mancia e farmi perdonare. Mi scoccia un po’ andarmene con quell’occhiata nella schiena. Tiro dritto, mi ricordo il percorso inverso per uscire dal terminal, ma con il sole oggi pare tutto diverso. Arrivo all’uscita e chiedo indicazioni per il terminal privato del vettore Manuel Tienda León, la prima guardia non lo sa, la seconda non è molto chiara. Mi butto in strada, mi guardo in giro, cerco qualche punto di riferimento per orientarmi, non riconosco niente e vado a naso. Attraverso una avenida, poi una specie di parco, domando di nuovo a due signore che passeggiano, non molto chiare nemmeno loro, ma la direzione sembra giusta. Proseguo, attraverso un’altra avenida, e dietro ad una stazione di servizio intravedo quello che cerco. Ce l’ho fatta quasi da solo. Attraverso ancora, sono arrivato. Il terminal è piccolo ma modernissimo, ieri, all’andata non eravamo entrati. Entro e chiedo per l’aeroporto, il tipo al banco mi risponde in inglese, lo prego di parlarmi in castigliano, sono italiano, sorride e quasi si scusa. Sono le 17 passate da poco, il prossimo bus per Ezeiza è alle 17,30. Si accomodi. Mi accomodo, ma prima esco e fumo una sigaretta. Poi mi accomodo.
Puntuali, partiamo, poca gente sul bus, l’autista scherza al telefono con un amico e si organizza la serata. Ripercorro la strada fatta solo ieri, e questa volta riconosco tutto. Arriviamo ad Ezeiza dopo mezz’ora precisa, scendo ma mentre sto prendendo il bagaglio l’autista mi chiede con quale compagnia volo. Rispondo, mentre realizzo perché me lo chiede, e lui mi prega di risalire sul bus, per le partenze internazionali c’è un’altra fermata a 200 metri. Stupore. Dopo 200 metri scendo, lo ringrazio, mi saluta con un sorriso e mi dice más cerca, ¿no? ed io annuisco con gratitudine.
Sono le 18, il mio volo parte alle 22,30, sono in anticipo e nemmeno di poco, ma a me piace così. Sono apprensivo in queste cose, e chi ha viaggiato con me lo sa bene. Viaggiando da solo, almeno non rompo le scatole a nessuno, anche questo è un bene. Ovviamente il check-in è lontano nel tempo, quindi mi organizzo. Prima un bel giro generale fin dove è permesso, per prendere visione. Poi al bagno, con calma. Poi per negozi in cerca di una maglia della nazionale di calcio argentina per mio nipote: niente da fare, non c’è la misura, così piccole non le fanno. Peccato. Alla fine, mi viene fame. Ho voglia di pizza, come sia sia. Mi siedo ad un bancone, mi accoglie una barista carina il giusto che si chiama Alessandra. Pizza e coca cola. La prima mi piace, ne ordino un’altra. Mi guardo intorno, e immagino di essere l’avventore meno rompicoglioni di tutto il locale. Secondo me non ci vado molto lontano. Faccio due conti e mi accorgo che come in tutti gli aeroporti, le cose costano il quadruplo. Prendo anche una bottiglia d’acqua, la disidratazione in aereo mi dà fastidio, e star sempre a chiedere alle hostess non mi piace. Altra passeggiata, il check-in è aperto, ma qui, all’inverso di Bogotá, le tasse aeroportuali vanno pagate prima, quindi vado e pago. Poi torno alla fila del check e prendo posizione. Una coppia con una lei brutta e odiosa cerca di fare la furba, senza riuscirci, ci scommetterei che sono italiani. Avrei vinto. Un commento su questa cosa e attacco discorso con il gruppo che mi sta dietro in fila, tutte donne. Sono due mamme e una sorella che accompagnano le due figlie che vanno in Spagna. Chiacchieriamo a più riprese, sono simpatiche e anche carine. Faccio il check-in e, come sempre, chiedo il corridoio. Se ho bisogno del bagno non voglio disturbare. Prima chiedevo sempre il finestrino. Si cambia nella vita.
Mi avvio lentamente al gate, una fila bestiale ai passaporti. Se ti avvii prima non c’è fretta e te la godi. Almeno, così la penso io, soprattutto dopo una antipatica esperienza in Inghilterra, a proposito di ritardi. Scorro attraverso i negozi duty-free, guardo solo le commesse fighe e niente altro. Prendo posizione vicino al gate di partenza del mio volo, mi siedo, seppur non proprio comodamente, ma sto già meglio. E qui comincia il mio passatempo preferito negli aeroporti: guardo. Guardo le persone, tutte, di tutti i tipi, mi immagino cose. Non sarà una cosa originale, ma mi piace. Passo il tempo così. Poi, un gruppo particolarmente rumoroso e vanitoso attira la mia attenzione, sono tre ragazze piuttosto carine, una signora anziana, un signore grosso in su con l’età, un giovane che pare il fidanzato della castana con la pelle olivastra, che mi pare di aver già visto ma non so dove. Le altre due, una bionda e una mora, si danno delle arie esagerate. Tutte e tra hanno scarpe con zeppe di sughero altissime e si pavoneggiano. Dopo 20 minuti buoni, quando la castana viene verso di me per buttar via qualcosa nel cestino vicino, metto a fuoco: è Adriana Lima, la modella brasiliana, quattro paperelle per intenderci. Non ci posso credere: ha un culone grosso così e la gobba sul naso. Ma pensa te. Ripassano le due ragazze conosciute in fila, dico loro che ero in pensiero e che ho fermato il volo per aspettarle. Ridono. Si comincia l’imbarco, con leggero ritardo. Ripercorro le sensazioni di oltre un mese via da casa. Si parte, lascio anche l’Argentina.
Si parte, e niente sarà più come prima.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

scusa la banalità ma mai nulla è come prima, ogni giorno ci cambia solo che non ce ne accorgiamo.

scoppe

jumbolo ha detto...

è vero. solo che ogni giorno di lavoro ti cambia in peggio :))

lafolle ha detto...

ultimo malinconico capitolo?

jumbolo ha detto...

ne mancano ancora due, il volo a l'arrivo a roma e il ritorno il giorno dopo a casa in treno

non andate via

COGLIONI!!