No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20060309

Colombia gen 06 - 42


Holiday in Colombia 26
30/1/2006 Stairway to heaven?

Come previsto, ci svegliamo presto, ci prepariamo e, a piedi, ci dirigiamo verso il terminal. Il sole picchia già forte, meno male che ho i pantaloni corti. Nonostante i bagagli tutti in spalla, ce la caviamo egregiamente, siamo allegri, come sempre quando c’è da viaggiare per una meta sconosciuta, curiosi e carichi. Giriamo un paio di sportelli di compagnie di trasporti, e come sempre, lo so che sembra incredibile, Juli strappa un prezzo di almeno 3000 pesos più basso di quello sparato inizialmente. C’è però una cosa che non è chiarissima: il bus ci lascerà al cruce por San Agustín, all’incrocio, e non al paese, perché la destinazione è Pitalito. Da lì dovremo prendere una jeep, che ci costa poco, ci assicurano che passano ogni 15 minuti. Speriamo bene. Quanto tempo di viaggio? 3 ore, massimo 4. Non ci crediamo per niente al mondo. Si parte alle 9.30. Quando vediamo il bus, capiamo il prezzo basso, ma non ci possiamo esimere dal farci fare una foto davanti al bus. E’ una cosa da turisti, è vero, e non da viaggiatori, ma il bus è talmente vecchio, traballante, di quelli che non ti ispirano fiducia, che sentiamo che, in qualche modo, ci divertiremo. Si parte, posti vuoti, e sul bus tutta gente locale, facce indie, pochissimi bianchi. La strada che percorreremo è sconsigliatissima da tutte le guide, Lonely Planet compresa. Vi si legge che spesso la guerriglia fermerebbe gli autobus. Io e Juli ci scherziamo sopra, so per certo che lei non ha nessun timore, e credetemi, forse per la prima volta nella mia vita, in una situazione del genere, non ne ho neppure io. L’aiutante dell’autista è un ometto che secondo me ogni fotografo cool vorrebbe fotografare per una foto artistica. Todo un personaje direbbero in Argentina. Dopo pochi minuti inizia la salita e finisce l’asfalto. Dalla scatola del cambio esce un fumo incredibile, e finalmente capisco perché nei posti a sedere più vicini alla postazione di guida hanno tutti qualcosa davanti alla bocca, chi un fazzoletto, chi si alza il maglione. Non riesco ad essere preoccupato, e la cosa mi diverte da matti. Sosta tecnica, e l’ometto, insieme all’autista, ripara il guasto, il fumo non esce più. Fantastico. Avrete capito che il bus è in assoluto il peggiore che abbiamo preso in Colombia; di quelli col muso allungato, old style, seggiolini decrepiti, impossibili da reclinare, sfoderati, che scricchiolano, finestrini che non si chiudono, cose così. Man mano che procediamo, si sale sempre di più, e la strada diventa una distesa di sassi che spuntano da ogni dove, la velocità sarà al massimo di 40 all’ora. E poi, una sensazione indefinibile: il cielo si sta avvicinando, letteralmente. Stiamo salendo parecchio, il tempo peggiora ed inizia una pioggerellina impalpabile ma persistente, non che sia una cosa particolarmente preoccupante, qui il tempo cambia ogni cinque minuti, e la temperatura si fa man mano più fredda. Mi metto la felpa, che durante i viaggi in bus mi porto sempre dietro, ma adesso i pantaloni corti non sono più una goduria come questa mattina a Popayan sotto il sole mattutino. Guardando dal finestrino ci rendiamo conto della pericolosità della strada, passaggi in curve strettissime sopra strapiombi altissimi. Si continua a salire, e i salti sulle poltroncine aumentano in maniera vertiginosa, fino a diventare una costante. Poco prima della metà del percorso, durante un momento nel quale la nebbia, o le nuvole, si diradano, guardiamo dal finestrino e rimaniamo basiti: da una parte e dall’altra, due vallate profonde e bellissime. Ho il fiato che mi si strozza in gola dalla bellezza, mi assale una sorta di sindrome di Stendhal. Dopo tre ore abbondanti di viaggio, un rapido appello dell’aiutante dell’autista, del quale mi sfugge la traduzione, precede una fermata. Juli mi spiega che ha chiesto se i passeggeri si volevano fermare qui o più tardi per mangiare, e quasi tutti hanno risposto di fermarsi subito. Scendo e chiedo all’ometto se posso prendere una cosa dal bagaglio, che è sistemato nel vano portabagagli. ¡Claro señor! È la risposta. Prendo i pantaloni lunghi, e vado in bagno a cambiarmi: fa davvero freddo e sta continuando a piovigginare, quasi nevischio. Ci sediamo e mangiamo quel che c’è, le ragazzine che servono ai tavoli hanno le trecce da india ma i pantaloni a vita bassa. Non vorrei dire una cazzata, ma siamo molto alti. Controllerò poi su una carta, ma le montagne qui intorno superano i 4000 metri. Siamo allegri, e nonostante il viaggio che è tutto fuorché comodo, siamo contenti di esserci nel mezzo. Salendo, il bus si è prima riempito, di gente del luogo che sembrava arrivare da qualche lavoro, sporca e sorridente, poi svuotato di nuovo. In pratica, siamo rimasti quelli che eravamo al terminal. Il pranzo è il solito piatto di riso, fagioli, patate lesse e patacones, meglio di niente. Si riparte, e lungo la strada case isolate, piene di bambini, e un sacco di militari. I salti sul seggiolino ci accompagnano, sembra di stare a sedere su un martello pneumatico. Juli prova a dormire sul seggiolino in fondo, quello lungo, ma cade sul pavimento insieme al “cuscino”. Si rimette a sedere, e mentre le dico che questo viaggio per me è come un massaggio alla prostata prolungato, lei non la smette più di ridere e di tenersi le mani sul seno, perché le scosse glielo muovono fino a farle male. Si continua così per almeno altre due ore abbondanti, e ridere è l’unica risorsa concreta. Man mano che si scende, si rivede il sole, la temperatura aumenta, il paesaggio rimane splendido. Do un’occhiata alla cartina che mi ha regalato Carlito prima di separarci a Salento, piuttosto dettagliata, e, come mi era sembrato prima, la strada che abbiamo fatto non è segnata. Arriviamo ad attraversare un paesino, dove scendono alcune persone, e dalle insegne dei negozi riesco a capire che siamo a Isnos. Controllo la carta: siamo molto vicini. Infatti, dopo poco, l’aiutante, che prima avevo pregato di avvertirci quando saremmo arrivati al cruce, ci mette in preallarme. Scendono anche due ragazzi che sedevano proprio davanti a noi, più una ragazza. Chiediamo quanto manca, e se qualcuno di loro aveva già fatto quel viaggio, uno ci dice di si, visto che lui è di qui, e che è sempre così. Manca poco. Passa una jeep, saliamo nel cassone coperto, e in meno di un quarto d’ora siamo a San Agustín. Sono le 16,30.
Per prima cosa, nonostante una specie di assalto da parte di gente che vuol venderci posti per dormire, escursioni e cose così, ci fermiamo davanti all’unica agenzia di trasporti (ci siamo informati dal ragazzo del luogo) e domandiamo se esiste un passaggio diretto per Bogotà, quanto costa, gli orari, quanto impiega ad arrivare. Tutti i giorni, uno al mattino, l’altro alle 18,30 del pomeriggio. Non costa molto, tempo stimato 9 ore. Con nove ore arriveremmo alle 3,30 del mattino, mettiamoci uno scarto anche grande, abbiamo l’aereo alle 18 del pomeriggio, ci stiamo dentro. Compriamo due biglietti per il giorno 2 febbraio, e Juli non contratta quasi per niente. Abbiamo pensato che, pieni, ci rimangono solo due giorni, e le guide dicono che questo posto è pieno di luoghi interessanti nei dintorni. Sarà la nostra ultima tappa, deciso. Domandiamo un’ultima cortesia alla signora dell’agenzia di trasporti, come arrivare all’hostel La casa di François. Ci spiega la strada, ci dice che dobbiamo salire un po’. Non capiamo granché bene la spiegazione, tanto è vero che dobbiamo chiedere altre due volte. Iniziamo a salire, e con i bagagli, dopo quel viaggio, inizio a lamentarmi. Mi domando se dobbiamo proprio andare a questo hotel, e chiaramente, la domanda è per Juli, che si altera leggermente, è quello che pare più economico e ce l’hanno consigliato. Incrociamo una ragazza a cavallo, scende in paese, insieme a lei sul cavallo una bambina. La ragazza è carina, non sembra colombiana, ci sorride, sembra un cartone animato giapponese. Secondo me è François. La salita esce dal paese, si inoltra in aperta campagna per alcune centinaia di metri, continuo la mia guerra psicologica riflettendo ad alta voce su come sarà fare questa strada ogni volta, e magari di notte. Ci perdiamo ad un bivio, dove scompaiono le indicazioni, ma fortunatamente c’è una casa dopo pochi metri, chiediamo ai bambini nel cortile e ci dicono che dobbiamo tornare poco indietro e prendere per l’altra strada. Arriviamo dopo 50 metri ancora in salita. Il posto è bello, ma è vuoto. Un giardino grande, un recinto per i cavalli, una enorme pila per lavare, una veranda in legno, colori accesi, ornamenti strani e particolarissimi. Sotto la veranda, a sedere ad un tavolino basso dove al posto delle sedie ci sono dei tronchi d’albero tagliati, Andrea, la ragazza argentina, Platypus a Bogotà, poi Plantation a Salento. Comincio a sospettare che in Colombia siamo al massimo gli stessi 20 viaggiatori e percorriamo le stesse rotte. Offre immediatamente un mate a Juli, ci dice che la ragazza è scesa in paese a cavallo con la figlia. Bingo! Facciamo a lei le domande di rito, e Andrea si comporta come Tamil al Plantation: si ci sono posti letto liberi, oltre a lei c’è solo una coppia di francesi che se ne vanno oggi, e i prezzi si aggirano intorno ai 10mila pesos, ma lei che è in tenda ne paga 5mila. A Juli si illuminano gli occhi, ma non ha la tenda. Aspettiamo la gestrice, così chiariamo meglio. Le ragazze conversano vorticosamente come vecchie amiche, io intervengo ogni tanto; e pensare che io Andrea l’ho riconosciuta subito, anche a Salento, mentre Juli no, non è fisionomista come me; ma del resto io sono campione del mondo, in fisionomia. La chiacchierata va avanti un bel po’, ed è anche interessante. Come faccio sempre, ascolto, e, da buon studioso di castigliano, faccio tesoro delle sostanziali differenze tra quello che parlano gli argentini e quello dei colombiani. Andrea, pur essendo originaria di Buenos Aires, non mi pare abbia il tipico accento di lì; domando quando usano termini a me sconosciuti, per impararne sempre di nuovi. Andrea studiava medicina, stava già facendo il tirocinio in un ospedale, viveva da sola, ma ad un certo punto non ce la faceva più, ha venduto casa e mobili ed è partita; fin quando avrà soldi starà in giro, poi tornerà in patria e vedrà cosa fare. E’ bionda con occhi chiari, fisico atletico, fuma di continuo, sorride sempre. Quando la notai a Bogotá ero convinto fosse nordeuropea, e glielo dissi anche. E’ spigliata e diretta, divertente e di compagnia. Ogni tanto mi guardo intorno, e insieme alle ragazze conveniamo che il posto è davvero paradisiaco. Si sente solo il rumore degli animali. Rifletto sul fatto che, se fosse stato per me, avremmo rinunciato a metà salita e avremmo cercato un alloggio più vicino al paese. Avrei sbagliato, ha fatto bene Juli a non sentire ragioni. Devo imparare a soffrire, ancora di più.
Dopo almeno un’ora, forse due, rientra Mariana, la ragazza che gestisce l’hostel, con sua figlia Sara, di 6 anni. Quando mi sorride, trovo un altro motivo per dar ragione alla tenacia di Juli, al suo insistere per salire fin quassù. Mariana è castana, capelli lunghi riccioluti, alta, parla con una voce soffice e vellutata, veste hippy, è sbadata, di viso somiglia a Bjork versione cartone animato giapponese, è molto, molto bella, ed ha un sorriso che ti stende. La figlia Sara è un capolavoro della natura. Beh, ci credo. Ci accoglie come se ci aspettasse da sempre, e mi rendo conto che la mia sensazione era giusta: era la ragazza che abbiamo incrociato salendo, quella che scendeva a cavallo sorridendo. Non crederesti mai che è colombiana, forse per i lineamenti del viso; ma, come dimostra la mia iniziale “catalogazione” di Andrea, il Sud America è una fucina di sorprese su questo tema. Parliamo rapidamente di soldi: 10mila pesos per la camera, 5mila se si dorme in tenda. Juli vorrebbe dormire in tenda, ma non ce l’ha. Mariana dice che forse ne ha una e gliela affitterebbe a una sciocchezza, ma Andrea si offre di ospitare Juli nella sua tenda, anche se è piccola Juli dovrebbe entrarci. Perfetto, io prendo una camera e ci sistemo la mia roba. E’ sinceramente bella, il letto è grande, di bambù, non il massimo ma sicuramente uno dei migliori materassi che ho trovato in Colombia, la stanza è nello stesso stile dell’hostel, colori misti e vivi, mattoni a vista, mobili di bambù, luce ma anche una candela, abbastanza pulita. Altre avvertenze e particolarità della Casa di François: l’acqua calda c’è dalle 18 alle 23, la doccia con l’acqua calda è situata accanto alla veranda esterna alla cucina, salendo tre scalini, sul viottolo che va allo spiazzo dove le ragazze hanno la tenda e al recinto dei cavalli. Andando dalla parte opposta si va ai bungalow. La mia camera è praticamente accanto alla cucina, ma vi si accede dalla parte opposta; all’esterno della camera una tettoia che dà sulla vallata sottostante, dove sta anche San Agustín. Nel mezzo della veranda principale c’è un’altra camera. Al limite della veranda, c’è la grande pila per lavare, che già vi ho descritto, e accanto alla pila c’è una cabina dove c’è una doccia fredda, accanto ancora il bagno; porte ridotte, se sto in piedi vedo fuori. Non c’è riservatezza, ma non c’è neppure pudore in giro. Per finire la descrizione, vi dirò che sopra la cucina e la grande veranda, c’è una casa, dove vivono Mariana e Sara; le scale per arrivarci sono sul fondo della cucina.
Mi faccio una doccia, e di solito dopo la doccia ci si rilassa, ma in questa situazione non ce n’è bisogno: siamo tutti estremamente rilassati. Cominciamo a pensare alla cena, ma è tardi e non abbiamo nessuna voglia di scendere in paese e risalire; facciamo melina pensando a cosa ci rimane da mangiare, niente, ma in effetti vogliamo impietosire Andrea e Mariana che stanno già preparando. Finisce che, promettendo di fare noi la spesa per tutti domani sera, ma soprattutto che cucinerò spaghetti all’indomani (soprattutto Mariana si dimostra entusiasta all’idea), rimediamo una cena tutta verdura, con Mariana stessa che si dà da fare. Per sdebitarmi, io cucino un huevo revuelto (un semplice uovo sbattuto con un po' di latte) per Sara, e ne vado piuttosto fiero. Il menù della Bjork hippy e colombiana è spettacolare; di primo, se così lo vogliamo chiamare, c’è una crema di yuca, un frutto tipo zucca che qui naturalmente non si trova e non cresce, che taglia a pezzi grossi con buccia e tutto, e trita nel frullatore, dopo di che lo riscalda. A riscaldamento avvenuto, dentro vengono poste cipolle bianche solo leggermente soffritte in padella, ma soprattutto maní (semplici arachidi) tostato in padella e finemente sbriciolato nel pestello (dalle mie mani sopraffine, appena termino di cucinare per Sara). Fidatevi, questa crema, sarà perché idea di questa semidea, è e rimarrà una delle cose più buone e fighe che ho mangiato nella mia vita. Di secondo ci sono carote e cavolo cotti al vapore più un purè di patate rozzo (patate lessate con buccia e immediatamente dopo semplicemente schiacciate), ma buono. C’è anche del pane, cosa particolarmente strana per una comida colombiana, e da bere, last but not least, c’è acqua di coca, ottenuta bollendo in acqua foglie di coca staccate dall’albero lì vicino.
Si mangia al tavolo alto e grande sotto la veranda, contrapposto a quello basso con i pezzi di tronco per seduta, a lume di alcune candele, la notte è gradevole e la chiacchera fluida. Dire che stiamo bene, probabilmente, è davvero riduttivo. C’è il sorriso su ogni bocca stasera. Aiuto Mariana a rigovernare, le faccio domande così come lei le fa a me, l’hostel non è suo ma ci lavora da qualche anno, tempo fa si è presa un anno sabbatico ed ha viaggiato verso il Perù con Sara, un’esperienza a metà tra il mistico e l’incosciente. Mi ammalia, lo ammetterò più tardi a me stesso, col suo sorriso e la sua voce da bambina adulta. Pare ci sia feeling, e qualche giorno più tardi scoprirò che non ero il solo a pensarlo. Al tavolo riprendiamo a parlare in quattro, e scendiamo nei particolari delle dinamiche interne alla Colombia, ai rapporti del popolo umile con la guerriglia, quando arriva un personaggio unico. Si chiama Jano, è peruviano ma da quasi 20 anni abita qui, è bianco, avrà una cinquantina d’anni, gli mancano parecchi denti, è stempiato ma ha i capelli lunghi, ha un fisico secco e nervoso e una parlantina affascinante. Mariana me ne aveva parlato come di un buonissimo amico, che le ha sempre dato una mano, anche nella gestione dell’hostel. Jano si impossessa della serata con la semplicità del marijuanero che è, e ci porta dentro la sua filosofia fatta di marxismo radicale e di anti-materialismo. E’ esaltato dal discorso di Hugo Chavez di alcuni giorni prima (vedi Intermezzo politico), e ci spiega come sta agendo il presidente venezuelano, come agisce la guerriglia in Colombia, le dinamiche della piccola San Agustín e tante, tantissime altre storie. E’ un piacere starlo a sentire, ma forse dovrebbe lasciar parlare un po’ anche gli altri. Si fa tardi, o almeno così ci pare, e nel frattempo Mariana è sparita di sopra. Jano chiede scusa e sale anche lui. Siamo stremati dalla giornata, e me ne rendo contro solo adesso. Ci auguriamo reciprocamente la buonanotte con grandi sorrisi, dovuti, tra le altre cose, anche al fiume di parole di Jano.
La mia camera è accogliente, è moderna ma al tempo stesso sa di vecchia casa di famiglia. Prendo il quaderno e la penna, scrivo qualche appunto sulla giornata, per la prima volta non sono solo due o tre righe. Spengo la luce e accendo la candela, per vedere l’effetto che fa. Mi piace, ma dopo poco spengo anche quella ed ascolto i rumori della notte, ma anche gli scricchiolii del pavimento sopra alla mia testa. Mi ritrovo a fantasticare su cartoni animati giapponesi sotto forma di donna, che entrano dalla porta della camera e vengono a farmi compagnia nel letto di bambù. Penso vagamente che sono a migliaia di chilometri da casa, dagli amici e dagli affetti, anni luce dal lavoro. Penso che forse questo è il paradiso. Chissà.

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