No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20060211

Colombia gen 06 - 21


Holiday in Colombia 7
11/1/2006 Chiamatemi Cuor di Leone

Alcune considerazioni di carattere campanilistico, così, tanto per. Argentini e Cileni non vanno d’accordo. In Argentina, gli abitanti di Buenos Aires città (non periferia), i cosiddetti porteños, stanno sui coglioni a tutti gli altri, perché se la tirano. Ma ne scopriremo altre, viaggiando.
Ci svegliano di soprassalto alle 5,45 dicendoci che il mini-bus è già giù che aspetta. C’è qualcosa che non quadra. Ci vestiamo in tutta fretta, ci richiamano e ci dicono che è un falso allarme, l’autista si è sbagliato, ripassa più tardi. Che dire, vaffanculo.
Prendiamo tutto e scendiamo, nella hall ci sono un ragazzo e due ragazze. Facciamo una rapida colazione. Il bus arriva più tardi delle 6,15. Vaffanculo di nuovo.
I tre salgono con noi, sono argentini, viaggiano anche loro per Bogotà, sono anche loro mochileros o backpackers, in inglese. Parentesi. Primo, non esiste una parola equivalente in italiano, per descrivere chi viaggia con uno zaino e dorme negli ostelli. Perché? Secondo, non è un’illuminazione improvvisa che mi fa capire che sono un mochilero, lo capirò più avanti. Sia chiaro che sono alle primissime armi.
Si chiamano Ramiro, Gabriela e Gabriela, sono musicisti d’orchestra. Simpatici, di Cordoba. Aeroporto, formalità, code, la mia cintura continua a far suonare i metal detector e me la fanno togliere tutte le volte, mi cadono i pantaloni. Si vola per Quito, senza scendere, poi per Lima. A Lima cambiamo, c’è un ritardo, socializziamo con i tre. Juliana ha una capacità di socializzazione incredibilmente superiore alla mia, e l’aiuta anche il fatto di essere di lingua castigliana. Oddio, il castigliano parlato in Argentina è molto particolare. E sarà motivo di discussione. Ripartiamo per Bogotà, il volo non è del tutto tranquillo, ma si fa. Juli non ha precisato che sono vegetariano, così con i pasti mi devo arrangiare scansando qualcosa. Sul volo per Bogotà ci siede accanto un ragazzo Colombiano, si chiama David, è di Cali, era in vacanza in Argentina con la famiglia, che è sparpagliata per l’aereo. Ci lascia la mail e il telefono, ci vedremo quando passeremo da Cali. Ci da delle dritte, come tutti quelli che conosciamo, cerchiamo di tenerne di conto come sempre. L’arrivo a Bogotà è caotico, arriviamo insieme ad un volo Iberia dalla Spagna, la fila alla dogana è allucinante e snervante, i fogli di immigrazione sono da ricompilare, perdiamo i tre cordobegni, fuori è già buio ma sono appena le 18, cerchiamo una sistemazione tra quelle che si è appuntata Juli. La troviamo, gli altri tre ne hanno un’altra, ci ritroveremo l’indomani. Usciamo e cerchiamo un taxi senza farci fregare. Saliamo. Il taxista si fa via via sempre più invadente, sono stanco e non so dove sono. Ci dice che l’hotel (di basso profilo) che abbiamo scelto è brutto, è in un quartiere pericoloso, non va bene, ce ne consiglia un altro. Facciamo resistenza. Si ferma davanti ad un altro hotel. Juli si arrabbia, scende e gli dice che se ci fanno dormire a meno di quanto ci hanno detto nell’altro va bene, io non so cosa fare. Ripartiamo, il taxista insiste con le sue pessime considerazioni, e ci lascia lontano dall’hotel. Ci indica però la strada. E’ buio, pioviggina, scendiamo e un ubriaco ci dice qualcosa, ci segue, ci chiede soldi. Sono assolutamente disturbato, quasi impaurito. Camminiamo veloci fino all’hotel, che si chiama Saragoza. Sono cento metri e l’ubriaco ci è sempre alle costole. Entriamo nell’hotel, una signora materna ci accoglie con suo figlio, simpaticissimo, chiudono la porta inferriata con l’ubriaco fuori. Ci mostrano la camera. Tv e radio ingabbiate e allucchettate, letti brutti, bagno accanto ad uno dei letti, lo divide dalla stanza una tenda. Sono triste e impaurito, mi sembra tutto nero e pericoloso. Juli se ne accorge, e cerca di scuotermi prima con le buone, poi con le cattive. Rimango muto per 15-20 minuti, raccolto in me stesso. Penso di andarmene. Juli esce a cercare un internet point per scrivere a casa. Io mi chiudo in un mutismo che pare senza uscita, e da solo è peggio. Juli rientra e, soavemente, mi fa uscire, mi fa fare 5 metri per mangiare qualcosa. Sono un po’ meno teso, forse la faccia della cameriera, non bella ma gioviale, però resto sempre come sospeso in un limbo tremolante ed insicuro. Il cibo non mi va giù. Rientriamo, la signora e il figlio cercano di tranquillizzarmi, ma ormai il mio mood è compromesso. Juli non sembra scioccata più di tanto. Mi sento un bambino di 5 anni nei confronti di una mamma di 50. E invece io ho quasi 40 anni e lei poco più di 20. C’è di che riflettere. Dormiamoci sopra, e vediamo.

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