No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20060227

Colombia gen 06 - 36


Holiday in Colombia 21
25/1/2006 Una giornata indimenticabile

Ci sveglia il caldo, anche se le tende sono tirate. In strada c'è movimento, non siamo lontani dal centro. A turno ci facciamo una doccia, e sistemiamo i bagagli pronti per partire. L'albergo si può lasciare entro 14, ma liberiamo la camera e lasciamo in custodia i bagagli, così usciamo. Un po' di colazione, poi telefonate, una al Plantation House per prenotare tre posti letto, l'altra al terminal dei bus per gli orari dei passaggi per Salento: i posti letto ci sono, i bus ci sono ogni mezz'ora fino alle 20. Ci possiamo rilassare, fare un giro per Armenia, prendercela comoda. La città non è un granché, ma non bisogna dimenticare che appena 7 anni fa fu colpita da un terremoto piuttosto forte. Andiamo verso il centro, dove c'è la piazza Bolivar (è in preparazione un'esibizione di un picchetto militare) e un centro commerciale. Nel centro commerciale, Juli finalmente trova una cassa di cambio, che però si rivela complicatissima: la tengono dentro almeno 10 minuti per cambiare un po' di dollari USA in pesos colombiani. Mentre aspettiamo, parlo di mio nipote a Carlo. In effetti, è una delle cose che mi mancano davvero, e covo la paura che non mi riconosca quando torno. Scendiamo di nuovo in strada e continuiamo il grande giro di Armenia, rigorosamente a piedi. Osservando le donne in strada, eleggo Armenia la capitale della tetta, Juli approva ed insieme a Carlo si fanno delle grasse risate. La chiesa più grande ha una particolarità: in basso, sotto la costruzione, c'è un supermercato. In Colombia si vede anche questo. Fa caldo, il sole spacca, poi improvvisamente passa una nuvola e scarica un po' d'acqua con una pioggerella fine. Almeno ci rinfresca un po'. Non c'è davvero niente di particolare qui, ma ci divertiamo camminando. E' anche ovvio, in due ce la possiamo passare bene, ma in tre ci sono più opzioni divertenti, e poi Carlo è una fucina di aneddoti, come già detto ha girato il mondo in lungo e in largo. Rientriamo poco prima di mezzogiorno, prendiamo i bagagli e salutiamo, prendiamo un taxi e arriviamo al terminal, parlando di calcio col taxista. Facciamo i biglietti e saliamo sul bus, piccolino, la distanza è poca, e ci sediamo aspettando l'autista. Chissà come sarà questo Salento. Le premesse sono contraddittorie: la maggior parte, anche dei colombiani, non lo conosce; ma i pochi che lo conoscono ne dicono un gran bene. Ormai manca poco. Partiamo col bus quasi vuoto, ma ormai lo sappiamo come funziona, si riempirà strada facendo. Così è. La giornata volge al bello, la strada è quasi panoramica, si sale, il solito verde intenso di qua e di là, il bus che si riempie, una coppia giovane con una bambina in tenuta scolastica sono costretti a far sedere la bambina sui gradini davanti alla porta di uscita. Poco più di un'ora, forse neppure, e scendiamo alla penultima fermata prima del capolinea (che, scopriremo poi, è situato nella piazza principale, e anche l'unica, di Salento), davanti alla caserma dei bomberos (i pompieri). Non facciamo in tempo ad aprire bocca per domandare dov'è il Plantation House che, evidentemente per come siamo vestiti, o per l'attitudine, alcuni passanti ci indicano la strada. Sono 200, forse 300 metri, e ci siamo. Prima vorrei descrivervi Salento, ma mi rendo conto che è difficile. La parola che mi viene in mente è "rarefatto". Il paese è tutto fatto da case a pian terreno, al massimo a un piano, ed è appoggiato su una serie di colli abbastanza dolci. Il tutto in un fazzoletto. Il Plantation House è immerso nel verde, ci si arriva mediante queste poche centinaia di metri di strada sterrata, e dall'altro lato comincia una piccola vallata, un posto ottimo, scopriremo poi, per osservare il tramonto. La costruzione principale è fatta ad L, è tutta in legno, i colori sono il verde e il rosa, la costeggia una balaustra; percorrendo la L a partire dalla porticina di entrata si incontra una camera doppia, un paio di camere singole, un paio di dormitori molto ristretti, con due letti a castello, poi un salottino con poltrone di giunco, una vecchia radio, un mobile con giochi di società, due scaffali con libri in castigliano e in inglese, infine la cucina, con due grandi finestre. Dietro la cucina, un bagno. Ci accoglie Chris, una giovane signore colombiana dalla voce squillante ma delicata, e ci propone o il dormitorio con i letti a castello, o un'altra costruzione in legno che si trova dietro quella principale. Ce la mostra, si attraversano appena dieci metri di giardino e vi si arriva. Completamente in legno marrone scuro, pochi mobili, un posto letto appena si entra sulla sinistra, poi una scala che va a una piccola mansarda (c'è un posto letto anche lì, ma lo scoprirò poi), un po' più avanti sempre a sinistra un altro letto, poi si scendono due scalini e ci sono un'altra stanza e altri due letti. Juli prende il più largo, Carlo l'altro. Io mi fermo al letto tra la scala e gli scalini della loro stanza. Invece, sulla destra dell'entrata, un frigorifero staccato, e più avanti, un bagno grande ma super spartano. Il tutto piuttosto pulito, devo dire. Ci accampiamo, torniamo in basso, fuori dalla cucina la balaustra si allarga e diventa una veranda, sgabelli alti che formano una specie di salotto, e le due grandi finestre della cucina creano la sensazione che ci sia una stanza enorme, con le pareti fatte di grandi foglie di caffé, e di un po' di cielo. Chris ci offre caffè o limonata, e scopriremo che è un classico. Ci illustra le possibili escursioni che possiamo fare nei dintorni, sembrano tutte impegnative ma interessanti, suggestive. Ci dà anche una mappa del paese, per orientarci e per capire dove possiamo fare la spesa o usare internet. Prima di andare in città, facciamo conoscenza con uno degli ospiti del Plantation: si chiama Alessandro, è di Bergamo ma vive da un po' di anni in Inghilterra, e ha dei dreadlocks lunghissimi. Mi racconta il perchè si trova lì, una storia allucinante: lui stava per partire per l'India, la sua ragazza era in Ecuador, è salita su un taxi, il taxista ha fatto salire due complici che hanno tentato di immobilizzarla, lei è riuscita a buttarsi dal taxi in corsa. Ha passato un po' di tempo all'ospedale, le hanno rubato tutti i bagagli, ma è viva. Ovviamente lui ha cambiato i suoi piani ed è volato in Ecuador. Quando lei si è rimessa, hanno deciso di farsi un giro, e adesso sono qui. Pazzesco. Ci vediamo dopo, usciamo e andiamo a fare un po' di spesa. Spaghetti, verdure, formaggio, pane, coca cola per il cuba libre (abbiamo sempre la bottiglia di rum intonsa), arriviamo fino alla piazza principale, diamo un'occhiata al paese, poca gente e tutta tranquilla, saliscendi tutto sommato dolci. Torniamo al Plantation per prepararci qualcosa da mangiare, e facciamo conoscenza con altri ospiti, c'è un ragazzo svizzero, di Berna come Peter, del quale non capisco il nome, ha una bella faccia con un po' di barba incolta e i capelli castani corti (Juli se lo ricorderà fino alla fine del viaggio, era davvero bello), poi Gary, statunitense, alto e rossiccio di capelli, ci sono due israeliani, che però non viaggiano in coppia, si sono trovati lì casualmente, lei si chiama Tamara, è bionda e piuttosto robusta, ha la lisca, la voce grossa e una tosse devastante, che però non la convince a smettere di fumare, lui si chiama Tamil, è snello e biondo con i capelli lunghi e mi ricorda un po' il cantante dei Nickelback. Poi arriva il compagno di Chris, quindi il co-proprietario dell'hostel, Tim, un inglese chiassoso, panciuto, occhialuto, riccioluto, spiritoso e cordiale. Porta con sè una delle figlie di Chris, Sabrina di 6 anni, che subito si coalizza, come in un rigurgito femminista, con Juli e contro tutti i maschi, ingaggiando una battaglia a colpi di bicchieri d'acqua contro soprattutto il tipo svizzero. Insieme a Tim c'è anche un altro inglese, che avevamo già visto all'Aragon a Bogotà. E' talmente su un altro pianeta che glielo devo dire io che ci siamo già visti e parlati. Arriva un'altra faccia conosciuta: Holly, l'inglese di Sheffield con la maglia del Barcelona, ma che lavora in Bolivia, che avevamo conosciuto al Palm Tree di Medellín, e che aveva apprezzato le nostre pastasciutte. E' festa, e lui pregusta già altre cene all'italiana. Non si fida del mio inglese, e mi parla in un castigliano velocissimo, ovviamente con un fortissimo accento inglese. Si fa buio, e apriamo il rum e la coca cola, si inizia a bere. Si intravede anche un'australiana, si chiama Beth e Carlo la conosce già, e per finire, mi sembrava di averla vista da lontano mentre eravamo in paese, ci dicono che c'è Andrea, l'argentina che conoscemmo facendo colazione al Platypus a Bogotà, quella che era col sosia di Raf; lei però non dorme qui, sta a casa di un tedesco che vive a Salento. Mi raccomando, non vi meravigliate. Siamo al quindicesimo giorno di viaggio in Colombia, e le rotte sono quelle: è normale incrociarsi e incontrarsi nuovamente.
Il grosso della comitiva decide di andare in paese per mangiare, Juli, Carlo ed io abbiamo pranzato molto tardi, per cui preferiamo rimanere in veranda e sorseggiare cuba libre artigianale. Dopo un po' però decidiamo almeno di fare un giro, e magari di mangiare qualcosa anche noi; Salento non è una metropoli, e non ci è difficile trovare la comitiva. Ci sono tutti, lo svizzero senza nome, Tamil, Tamara, Beth, Gary, Holly, Alessandro e la sua ragazza, che è orientale (scoprirò che è malese), ci sediamo anche noi, mi faccio consigliare da Alessandro, vegetariano anche lui, e mi faccio portare un patacón con queso (i patacones sono banane battute spianate e fritte, questa è molto sottile e croccante, e con formaggio a scaglie sopra), gli altri vanno giù di carne. Si beve birra, si parla e si ride. Sono accanto a Tamara, e, sinceramente interessato all'argomento, le chiedo del cinema e le dico che conosco piuttosto bene qualche regista israeliano. Dapprima si stupisce un po', quasi incredula, poi quando le cito il più famoso Amos Gitai, e il meno famoso Eytan Fox si lascia prendere nella discussione. Le cito qualche film per me molto valido, proveniente da vicini paese arabi, e lei si lascia convincere, mi promette che li cercherà per vederli. La comitiva è affiatata, e si decide di rientrare al Plantation e di continuare la serata lì, da bere e da fumare ce n'è. Attraversiamo la piazza, e quando stiamo quasi per uscirne per imboccare il rettilineo che porta alla caserma dei pompieri, mi accorgo di aver quasi finito le sigarette, per cui avverto che mi fermo a comprarle. Entro in un piccolissimo bar, vedo delle sigarette. Chiedo un paquete de Malboro rojo, e mentre pago mi rendo conto che il più ubriaco dei ragazzi e ragazze che erano dentro al piccolo bar quando sono entrato, mi sta fissando in maniera strana. Penso tra me "adesso succede qualcosa". Il tipo è rosso in viso, con gli occhi di chi ha bevuto un bel po', e porta un cappellino da baseball calato quasi fino agli occhi. Mi domanda di dove sono, rispondo italiano. Pausa. Mi chiede cosa bevo, rispondo birra. Lui si rivolge alla ragazza del bar e le ordina due poker, una marca colombiana. Offre lui. Si inizia a bere, mi presenta gli altri. Iniziano le domande sulle differenze che ci sono tra i nostri paesi, su come vedo la Colombia, su come mi sembra la gente. Alcuni compagni di comitiva entrano nel bar quasi preoccupati, e mi chiedono cosa succede. Spiego che mi stanno offrendo da bere. Mi dicono che loro vanno all'hostel, anche se timidamente invito tutti a restare, invito declinato. Ok, li raggiungo più tardi, tanto la strada è semplice. Fabian, questo il nome del mio amico, perchè ormai siamo amici, mi dice che mi accompagnerà lui, quando deciderò di andare. Gli dico che non è il caso, ci saranno 500 metri e la strada ho capito che non è affatto difficile, non vuol sentire ragioni. Le risate, le birre, i discorsi intrecciati si fanno impastati dall'alcol, ma continuano ad essere significativi. Mi fanno i complimenti per il castigliano, poi Fabian mi chiede se ho una moneta, qualcosa che valga poco, per fargli vedere come sono gli euro. Non è chiarissimo a tutti questo concetto che praticamente tutta Europa abbia la stessa moneta. Non ho monete con me, quindi apro il portafogli e, oltre a banconote da 50, ne ho una da 5. Gliela dò e gli dico che la tenga per ricordo. I suoi amici si guardano, lo guardano, e gli fanno capire che, col cambio, sono un sacco di soldi. Lui tira fuori una banconota da 2000 pesos, si fa dare una penna dalla barista, ci scrive il suo nome, me la dà, e mi fa giurare di non spenderla mai, come lui farà con quella da 5 euro. So che a raccontarla ora, così, fa ridere, ma, credetemi, in quel momento è commovente. Mi viene in mente che la ormai famosa canzone-tormentone del viaggio è ancora un mistero. Il nome dal cantante e il titolo della canzone, che mi sono stati dati a Bogotà, sono stati smentiti a Santa Marta. Chiedo aiuto ai ragazzi, canticchio la canzone, il titolo dovrebbe essere Así de facíl, e la barista prende un cd, lo mette a tutto volume, è quella. Il titolo è giusto, ma nessuno sa come si chiami il cantante; però il ritmo è un Vallenato. E' già un passo avanti. Andiamo avanti a ridere, scherzare, raccontarci, chiedere, bere, per non so quanto. So solo che ad un certo momento, la barista deve chiudere. Ci salutiamo, ma Fabian tiene fede alla sua parola, mi accompagna fino al Plantation. E qui siamo alla parodia: i 500 metri diventano un chilometro. Ormai parliamo trascinando la voce e la lingua come i piedi, e procediamo a zig zag. Fabian mi fa vedere la sua casa da fuori. Quando arriviamo alla caserma dei pompieri ci sediamo sul marciapiede con l'ultima birra in mano. Mi chiede se ho passato una bella serata, e sinceramente gli rispondo di si, ma non solo, sicuramente non me la dimenticherò mai. Lui ci pensa un po' e dice che sarà così anche per lui, e poi abbiamo le banconote. Mi saluta e mi augura la buonanotte.
Arrivo al Plantation, e sono tutti lì che mandano avanti la serata, mi inserisco ma mi rendo conto di essere più fuori di tutti. Forse per continuare il discorso sulle banconote, non so come, entro in una discussione accesa con Juli, e, pensando di risultare divertente, le dico che con le banconote argentine (me ne sono rimaste un bel po' in tasca, e non ci sono modi di cambiarle) ci posso accendere le sigarette. Juli si arrabbia di brutto, e se ne va a letto. Mi arrabbio molto con me stesso, ho rovinato una serata esaltante. Un po' alla volta vanno a letto quasi tutti, rimaniamo io, Holly, Tamara e Tamil. La lingua di scambio diventa l'inglese, e a parte Holly gli altri due si danno da fare per farmi capire quello che si sta dicendo. Sono interessato a capire come si vive in Israele l'obbligo della leva, e dell'esercito. Tamara dice che ne avrebbe volentieri fatto a meno, ma non è stato poi così male quell'anno, Tamil mi dice che lui c'è stato quattro anni e mezzo, e che per lui è stata un'esperienza importante, che ti forma il carattere, ti fortifica e ti mette alla prova, ti insegna a rapportarti con gli altri e cose del genere. Non sono così convinto, ma me lo spiega con una soavità che comunque, mi fa piacere ascoltare. Poi mi spiegano che odiano gli israeliani che viaggiano in gruppo, per questo loro viaggiano da soli, mi spiegano che soggiornano solo negli hostel israeliani gestiti da israeliani, e che pretendono, in malo modo, di pagare poco. In questo non sono molto patrioti, disprezzano questo tipo di comportamento, e ammettono che in questi casi i luoghi comuni sugli ebrei sono giusti. E' una discussione stanca, da 4 di mattina, alcolica e fumosa, ma sempre interessante. Si finisce sul filosofico spicciolo, sulla necessità di vivere in pace e di poter viaggiare senza paure di nessun tipo. Ci auguriamo reciprocamente la buonanotte, Tam e Tam vanno ai letti a castello, Holly sale con me, ha preso il letto vicino al mio. Mi addormento come un sasso, senza nemmeno il tempo di ripensare a questa giornata che sicuramente rimarrà scolpita nel marmo della mia memoria. Non che non ne abbia mai vissute, ma quando ti succedono hai quella sensazione di pienezza che non hai tutti i giorni. Quella sensazione che senza parole, ti spiega il perchè la vita vale la pena di essere vissuta.

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