No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20060228

la terna sinistrorsa

il sole splende ma la temperatura è ancora troppo bassa. c'è chi parte e chi rimane. chi rimane saluta chi parte con il fazzoletto bianco. c'è anche chi ritorna. in questo giorni io ho fatto quello che rimane, quello che è partito senza nessuno che lo salutasse con il fazzoletto e quello che tornava.
chi parte è spesso in fibrillazione, perchè non sa cosa succederà una volta partito, bene o male che vada sarà una cosa assolutamente nuova.
chi rimane spesso legge per partire con il pensiero, perchè in fondo in fondo vorrebbe partire pure lui, ma in parte gode della propria comodità e sicurezza.
chi ritorna brama la comodità del proprio letto, ma vede svanire l'eccitazione della lontananza.

20060227

Colombia gen 06 - 36


Holiday in Colombia 21
25/1/2006 Una giornata indimenticabile

Ci sveglia il caldo, anche se le tende sono tirate. In strada c'è movimento, non siamo lontani dal centro. A turno ci facciamo una doccia, e sistemiamo i bagagli pronti per partire. L'albergo si può lasciare entro 14, ma liberiamo la camera e lasciamo in custodia i bagagli, così usciamo. Un po' di colazione, poi telefonate, una al Plantation House per prenotare tre posti letto, l'altra al terminal dei bus per gli orari dei passaggi per Salento: i posti letto ci sono, i bus ci sono ogni mezz'ora fino alle 20. Ci possiamo rilassare, fare un giro per Armenia, prendercela comoda. La città non è un granché, ma non bisogna dimenticare che appena 7 anni fa fu colpita da un terremoto piuttosto forte. Andiamo verso il centro, dove c'è la piazza Bolivar (è in preparazione un'esibizione di un picchetto militare) e un centro commerciale. Nel centro commerciale, Juli finalmente trova una cassa di cambio, che però si rivela complicatissima: la tengono dentro almeno 10 minuti per cambiare un po' di dollari USA in pesos colombiani. Mentre aspettiamo, parlo di mio nipote a Carlo. In effetti, è una delle cose che mi mancano davvero, e covo la paura che non mi riconosca quando torno. Scendiamo di nuovo in strada e continuiamo il grande giro di Armenia, rigorosamente a piedi. Osservando le donne in strada, eleggo Armenia la capitale della tetta, Juli approva ed insieme a Carlo si fanno delle grasse risate. La chiesa più grande ha una particolarità: in basso, sotto la costruzione, c'è un supermercato. In Colombia si vede anche questo. Fa caldo, il sole spacca, poi improvvisamente passa una nuvola e scarica un po' d'acqua con una pioggerella fine. Almeno ci rinfresca un po'. Non c'è davvero niente di particolare qui, ma ci divertiamo camminando. E' anche ovvio, in due ce la possiamo passare bene, ma in tre ci sono più opzioni divertenti, e poi Carlo è una fucina di aneddoti, come già detto ha girato il mondo in lungo e in largo. Rientriamo poco prima di mezzogiorno, prendiamo i bagagli e salutiamo, prendiamo un taxi e arriviamo al terminal, parlando di calcio col taxista. Facciamo i biglietti e saliamo sul bus, piccolino, la distanza è poca, e ci sediamo aspettando l'autista. Chissà come sarà questo Salento. Le premesse sono contraddittorie: la maggior parte, anche dei colombiani, non lo conosce; ma i pochi che lo conoscono ne dicono un gran bene. Ormai manca poco. Partiamo col bus quasi vuoto, ma ormai lo sappiamo come funziona, si riempirà strada facendo. Così è. La giornata volge al bello, la strada è quasi panoramica, si sale, il solito verde intenso di qua e di là, il bus che si riempie, una coppia giovane con una bambina in tenuta scolastica sono costretti a far sedere la bambina sui gradini davanti alla porta di uscita. Poco più di un'ora, forse neppure, e scendiamo alla penultima fermata prima del capolinea (che, scopriremo poi, è situato nella piazza principale, e anche l'unica, di Salento), davanti alla caserma dei bomberos (i pompieri). Non facciamo in tempo ad aprire bocca per domandare dov'è il Plantation House che, evidentemente per come siamo vestiti, o per l'attitudine, alcuni passanti ci indicano la strada. Sono 200, forse 300 metri, e ci siamo. Prima vorrei descrivervi Salento, ma mi rendo conto che è difficile. La parola che mi viene in mente è "rarefatto". Il paese è tutto fatto da case a pian terreno, al massimo a un piano, ed è appoggiato su una serie di colli abbastanza dolci. Il tutto in un fazzoletto. Il Plantation House è immerso nel verde, ci si arriva mediante queste poche centinaia di metri di strada sterrata, e dall'altro lato comincia una piccola vallata, un posto ottimo, scopriremo poi, per osservare il tramonto. La costruzione principale è fatta ad L, è tutta in legno, i colori sono il verde e il rosa, la costeggia una balaustra; percorrendo la L a partire dalla porticina di entrata si incontra una camera doppia, un paio di camere singole, un paio di dormitori molto ristretti, con due letti a castello, poi un salottino con poltrone di giunco, una vecchia radio, un mobile con giochi di società, due scaffali con libri in castigliano e in inglese, infine la cucina, con due grandi finestre. Dietro la cucina, un bagno. Ci accoglie Chris, una giovane signore colombiana dalla voce squillante ma delicata, e ci propone o il dormitorio con i letti a castello, o un'altra costruzione in legno che si trova dietro quella principale. Ce la mostra, si attraversano appena dieci metri di giardino e vi si arriva. Completamente in legno marrone scuro, pochi mobili, un posto letto appena si entra sulla sinistra, poi una scala che va a una piccola mansarda (c'è un posto letto anche lì, ma lo scoprirò poi), un po' più avanti sempre a sinistra un altro letto, poi si scendono due scalini e ci sono un'altra stanza e altri due letti. Juli prende il più largo, Carlo l'altro. Io mi fermo al letto tra la scala e gli scalini della loro stanza. Invece, sulla destra dell'entrata, un frigorifero staccato, e più avanti, un bagno grande ma super spartano. Il tutto piuttosto pulito, devo dire. Ci accampiamo, torniamo in basso, fuori dalla cucina la balaustra si allarga e diventa una veranda, sgabelli alti che formano una specie di salotto, e le due grandi finestre della cucina creano la sensazione che ci sia una stanza enorme, con le pareti fatte di grandi foglie di caffé, e di un po' di cielo. Chris ci offre caffè o limonata, e scopriremo che è un classico. Ci illustra le possibili escursioni che possiamo fare nei dintorni, sembrano tutte impegnative ma interessanti, suggestive. Ci dà anche una mappa del paese, per orientarci e per capire dove possiamo fare la spesa o usare internet. Prima di andare in città, facciamo conoscenza con uno degli ospiti del Plantation: si chiama Alessandro, è di Bergamo ma vive da un po' di anni in Inghilterra, e ha dei dreadlocks lunghissimi. Mi racconta il perchè si trova lì, una storia allucinante: lui stava per partire per l'India, la sua ragazza era in Ecuador, è salita su un taxi, il taxista ha fatto salire due complici che hanno tentato di immobilizzarla, lei è riuscita a buttarsi dal taxi in corsa. Ha passato un po' di tempo all'ospedale, le hanno rubato tutti i bagagli, ma è viva. Ovviamente lui ha cambiato i suoi piani ed è volato in Ecuador. Quando lei si è rimessa, hanno deciso di farsi un giro, e adesso sono qui. Pazzesco. Ci vediamo dopo, usciamo e andiamo a fare un po' di spesa. Spaghetti, verdure, formaggio, pane, coca cola per il cuba libre (abbiamo sempre la bottiglia di rum intonsa), arriviamo fino alla piazza principale, diamo un'occhiata al paese, poca gente e tutta tranquilla, saliscendi tutto sommato dolci. Torniamo al Plantation per prepararci qualcosa da mangiare, e facciamo conoscenza con altri ospiti, c'è un ragazzo svizzero, di Berna come Peter, del quale non capisco il nome, ha una bella faccia con un po' di barba incolta e i capelli castani corti (Juli se lo ricorderà fino alla fine del viaggio, era davvero bello), poi Gary, statunitense, alto e rossiccio di capelli, ci sono due israeliani, che però non viaggiano in coppia, si sono trovati lì casualmente, lei si chiama Tamara, è bionda e piuttosto robusta, ha la lisca, la voce grossa e una tosse devastante, che però non la convince a smettere di fumare, lui si chiama Tamil, è snello e biondo con i capelli lunghi e mi ricorda un po' il cantante dei Nickelback. Poi arriva il compagno di Chris, quindi il co-proprietario dell'hostel, Tim, un inglese chiassoso, panciuto, occhialuto, riccioluto, spiritoso e cordiale. Porta con sè una delle figlie di Chris, Sabrina di 6 anni, che subito si coalizza, come in un rigurgito femminista, con Juli e contro tutti i maschi, ingaggiando una battaglia a colpi di bicchieri d'acqua contro soprattutto il tipo svizzero. Insieme a Tim c'è anche un altro inglese, che avevamo già visto all'Aragon a Bogotà. E' talmente su un altro pianeta che glielo devo dire io che ci siamo già visti e parlati. Arriva un'altra faccia conosciuta: Holly, l'inglese di Sheffield con la maglia del Barcelona, ma che lavora in Bolivia, che avevamo conosciuto al Palm Tree di Medellín, e che aveva apprezzato le nostre pastasciutte. E' festa, e lui pregusta già altre cene all'italiana. Non si fida del mio inglese, e mi parla in un castigliano velocissimo, ovviamente con un fortissimo accento inglese. Si fa buio, e apriamo il rum e la coca cola, si inizia a bere. Si intravede anche un'australiana, si chiama Beth e Carlo la conosce già, e per finire, mi sembrava di averla vista da lontano mentre eravamo in paese, ci dicono che c'è Andrea, l'argentina che conoscemmo facendo colazione al Platypus a Bogotà, quella che era col sosia di Raf; lei però non dorme qui, sta a casa di un tedesco che vive a Salento. Mi raccomando, non vi meravigliate. Siamo al quindicesimo giorno di viaggio in Colombia, e le rotte sono quelle: è normale incrociarsi e incontrarsi nuovamente.
Il grosso della comitiva decide di andare in paese per mangiare, Juli, Carlo ed io abbiamo pranzato molto tardi, per cui preferiamo rimanere in veranda e sorseggiare cuba libre artigianale. Dopo un po' però decidiamo almeno di fare un giro, e magari di mangiare qualcosa anche noi; Salento non è una metropoli, e non ci è difficile trovare la comitiva. Ci sono tutti, lo svizzero senza nome, Tamil, Tamara, Beth, Gary, Holly, Alessandro e la sua ragazza, che è orientale (scoprirò che è malese), ci sediamo anche noi, mi faccio consigliare da Alessandro, vegetariano anche lui, e mi faccio portare un patacón con queso (i patacones sono banane battute spianate e fritte, questa è molto sottile e croccante, e con formaggio a scaglie sopra), gli altri vanno giù di carne. Si beve birra, si parla e si ride. Sono accanto a Tamara, e, sinceramente interessato all'argomento, le chiedo del cinema e le dico che conosco piuttosto bene qualche regista israeliano. Dapprima si stupisce un po', quasi incredula, poi quando le cito il più famoso Amos Gitai, e il meno famoso Eytan Fox si lascia prendere nella discussione. Le cito qualche film per me molto valido, proveniente da vicini paese arabi, e lei si lascia convincere, mi promette che li cercherà per vederli. La comitiva è affiatata, e si decide di rientrare al Plantation e di continuare la serata lì, da bere e da fumare ce n'è. Attraversiamo la piazza, e quando stiamo quasi per uscirne per imboccare il rettilineo che porta alla caserma dei pompieri, mi accorgo di aver quasi finito le sigarette, per cui avverto che mi fermo a comprarle. Entro in un piccolissimo bar, vedo delle sigarette. Chiedo un paquete de Malboro rojo, e mentre pago mi rendo conto che il più ubriaco dei ragazzi e ragazze che erano dentro al piccolo bar quando sono entrato, mi sta fissando in maniera strana. Penso tra me "adesso succede qualcosa". Il tipo è rosso in viso, con gli occhi di chi ha bevuto un bel po', e porta un cappellino da baseball calato quasi fino agli occhi. Mi domanda di dove sono, rispondo italiano. Pausa. Mi chiede cosa bevo, rispondo birra. Lui si rivolge alla ragazza del bar e le ordina due poker, una marca colombiana. Offre lui. Si inizia a bere, mi presenta gli altri. Iniziano le domande sulle differenze che ci sono tra i nostri paesi, su come vedo la Colombia, su come mi sembra la gente. Alcuni compagni di comitiva entrano nel bar quasi preoccupati, e mi chiedono cosa succede. Spiego che mi stanno offrendo da bere. Mi dicono che loro vanno all'hostel, anche se timidamente invito tutti a restare, invito declinato. Ok, li raggiungo più tardi, tanto la strada è semplice. Fabian, questo il nome del mio amico, perchè ormai siamo amici, mi dice che mi accompagnerà lui, quando deciderò di andare. Gli dico che non è il caso, ci saranno 500 metri e la strada ho capito che non è affatto difficile, non vuol sentire ragioni. Le risate, le birre, i discorsi intrecciati si fanno impastati dall'alcol, ma continuano ad essere significativi. Mi fanno i complimenti per il castigliano, poi Fabian mi chiede se ho una moneta, qualcosa che valga poco, per fargli vedere come sono gli euro. Non è chiarissimo a tutti questo concetto che praticamente tutta Europa abbia la stessa moneta. Non ho monete con me, quindi apro il portafogli e, oltre a banconote da 50, ne ho una da 5. Gliela dò e gli dico che la tenga per ricordo. I suoi amici si guardano, lo guardano, e gli fanno capire che, col cambio, sono un sacco di soldi. Lui tira fuori una banconota da 2000 pesos, si fa dare una penna dalla barista, ci scrive il suo nome, me la dà, e mi fa giurare di non spenderla mai, come lui farà con quella da 5 euro. So che a raccontarla ora, così, fa ridere, ma, credetemi, in quel momento è commovente. Mi viene in mente che la ormai famosa canzone-tormentone del viaggio è ancora un mistero. Il nome dal cantante e il titolo della canzone, che mi sono stati dati a Bogotà, sono stati smentiti a Santa Marta. Chiedo aiuto ai ragazzi, canticchio la canzone, il titolo dovrebbe essere Así de facíl, e la barista prende un cd, lo mette a tutto volume, è quella. Il titolo è giusto, ma nessuno sa come si chiami il cantante; però il ritmo è un Vallenato. E' già un passo avanti. Andiamo avanti a ridere, scherzare, raccontarci, chiedere, bere, per non so quanto. So solo che ad un certo momento, la barista deve chiudere. Ci salutiamo, ma Fabian tiene fede alla sua parola, mi accompagna fino al Plantation. E qui siamo alla parodia: i 500 metri diventano un chilometro. Ormai parliamo trascinando la voce e la lingua come i piedi, e procediamo a zig zag. Fabian mi fa vedere la sua casa da fuori. Quando arriviamo alla caserma dei pompieri ci sediamo sul marciapiede con l'ultima birra in mano. Mi chiede se ho passato una bella serata, e sinceramente gli rispondo di si, ma non solo, sicuramente non me la dimenticherò mai. Lui ci pensa un po' e dice che sarà così anche per lui, e poi abbiamo le banconote. Mi saluta e mi augura la buonanotte.
Arrivo al Plantation, e sono tutti lì che mandano avanti la serata, mi inserisco ma mi rendo conto di essere più fuori di tutti. Forse per continuare il discorso sulle banconote, non so come, entro in una discussione accesa con Juli, e, pensando di risultare divertente, le dico che con le banconote argentine (me ne sono rimaste un bel po' in tasca, e non ci sono modi di cambiarle) ci posso accendere le sigarette. Juli si arrabbia di brutto, e se ne va a letto. Mi arrabbio molto con me stesso, ho rovinato una serata esaltante. Un po' alla volta vanno a letto quasi tutti, rimaniamo io, Holly, Tamara e Tamil. La lingua di scambio diventa l'inglese, e a parte Holly gli altri due si danno da fare per farmi capire quello che si sta dicendo. Sono interessato a capire come si vive in Israele l'obbligo della leva, e dell'esercito. Tamara dice che ne avrebbe volentieri fatto a meno, ma non è stato poi così male quell'anno, Tamil mi dice che lui c'è stato quattro anni e mezzo, e che per lui è stata un'esperienza importante, che ti forma il carattere, ti fortifica e ti mette alla prova, ti insegna a rapportarti con gli altri e cose del genere. Non sono così convinto, ma me lo spiega con una soavità che comunque, mi fa piacere ascoltare. Poi mi spiegano che odiano gli israeliani che viaggiano in gruppo, per questo loro viaggiano da soli, mi spiegano che soggiornano solo negli hostel israeliani gestiti da israeliani, e che pretendono, in malo modo, di pagare poco. In questo non sono molto patrioti, disprezzano questo tipo di comportamento, e ammettono che in questi casi i luoghi comuni sugli ebrei sono giusti. E' una discussione stanca, da 4 di mattina, alcolica e fumosa, ma sempre interessante. Si finisce sul filosofico spicciolo, sulla necessità di vivere in pace e di poter viaggiare senza paure di nessun tipo. Ci auguriamo reciprocamente la buonanotte, Tam e Tam vanno ai letti a castello, Holly sale con me, ha preso il letto vicino al mio. Mi addormento come un sasso, senza nemmeno il tempo di ripensare a questa giornata che sicuramente rimarrà scolpita nel marmo della mia memoria. Non che non ne abbia mai vissute, ma quando ti succedono hai quella sensazione di pienezza che non hai tutti i giorni. Quella sensazione che senza parole, ti spiega il perchè la vita vale la pena di essere vissuta.

sempre riguardo agli stiaffi

ora ti do uno stiaffo ti faccio toccà l'orecchi inzieme!

20060226

Colombia gen 06 - 35


Holiday in Colombia 20
24/1/2006 On the road again

Mi sveglio presto, prima delle 9, nonostante non ci sia questo sole abbagliante. Mi preparo ad un ulteriore scarpinata di mezza giornata, e mi accorgo che la curiosità di viaggiare ancora è forte. Abbiamo deciso che la nostra nuova metà sarà un posto chiamato Salento, e la cosa mi fa sorridere non poco. Non sono mai stato in Salento in Italia, e sto per andare a Salento in Colombia. Faccio colazione mentre Juli si sveglia, e nella saletta da pranzo leggo un giornale colombiano. Trovo un'unica notizia italiana: uno sciopero. Anche questa è civiltà. C'è il proprietario dell'hostel, un argentino sovrappeso e chiaccherone, che sta trattando con qualcuno al telefono per il tedesco che dorme sotto di me, che vuol comprare una moto. Ecco il tedesco, mi saluta e mi chiede come mai vado sempre a letto tardi e mi sveglio sempre presto, cioè, vado sempre a letto dopo di lui e mi sveglio sempre prima di lui. Non sapendo cosa rispondergli, gli dico che a casa sono abituato a svegliarmi alle 6,30. Non che non sia vero, è che non credo che questa sia la ragione. In effetti, non la conosco neppure io, la ragione. Quando Juli è pronta, usciamo. Andiamo verso il centro della città, passando dalla parte opposta a quella che abbiamo percorso ieri pomeriggio per tornare all'hostel. Il cielo è cupo e minaccia pioggia. Camminiamo e chiaccheriamo, ci scambiamo pareri sulle persone che abbiamo conosciuto in viaggio. Passiamo davanti ad un edificio che sembra una fabbrica, ma è molto pulito. Scopriamo che sono le aziende municipali, ma non riusciamo a capire bene che cosa succede lì dentro. Attraversiamo quello che sulla mappa si chiama parque de los pies descalzos, che in realtà è solo un giardinetto, e arriviamo ad un edificio moderno che assomiglia alla biblioteca che abbiamo visto dall'esterno ieri, e invece è il museo interattivo, sponsorizzato dalle aziende municipali. E' in ristrutturazione e ampliamento, e l'ingresso è inibito al pubblico. Passiamo oltre, e ci dirigiamo verso la biblioteca. Per entrare, è peggio che all'aeroporto. Dobbiamo lasciare gli zainetti al guardaroba, passare da un metal-detector, e alla fine siamo dentro. Partiamo dal basso, ci sono esposti dei crani di uomini preistorici, c'è un percorso tematico sull'evoluzione umana ben fatto. Al piano superiore, la biblioteca vera e propria. E' bellissima, la struttura è ultra-moderna a livello architettonico, si sviluppa su più piani, ci sono computer, internet gratis, giornali, due sale conferenze e/o audiovisivi, salette di studio singole. Unico neo, è tematica, quindi ci sono solo testi tecnici, su chimica, fisica, matematica, roba così. Anche questa è una donazione delle aziende municipali. Incontriamo Stella, la colombiana/svizzera, col suo sorriso triste. Mi riprometto di chiedere a Carlo il suo indirizzo e-mail. Io e Juli siamo affascinati dalla biblioteca, e terminiamo la visita dicendoci reciprocamente che, se ce ne fosse una così nelle nostre rispettive città, ne andremmo orgogliosi. Cerchiamo un negozio che faccia fotocopie, per fotocopiare le pagine che ci interessano della Lonely Planet di Carlo. Prima di questo viaggio, avevo sentito nominare questa guida, qui scopro che è la bibbia dei viaggiatori con lo zaino. Torniamo verso l'hostel, compriamo quel che ci manca per mangiare qualcosa, e mentre pranziamo ci accordiamo con Carlo: viaggerà con noi verso Salento. Dopo mangiato, saldiamo il conto dell'hostel, io, oltre ai pernottamenti, ho da pagare una lavatrice e una ventina di birre; nonostante questo, spendo una sciocchezza. Arriva il momento dei saluti, e mi rendo contro che un po' mi dispiace lasciare questa piccola comunità. Ci si scambiano gli indirizzi e-mail, ci si bacia, ci si abbraccia. Ce ne andiamo. Prendiamo un taxi, e andiamo al terminal sud, questa volta. Un po' più piccolo, un po' più pulito di quello nord, questa è l'impressione che mi fa. Solita consultazione degli sportelli che viaggiano per la destinazione che ci interessa, però stavolta solo dopo aver cercato di capire come dobbiamo combinare le tratte. In effetti, sembra che questo Salento non sia così conosciuto. Ci informano che dobbiamo comprare un passaggio per Armenia, così si chiama la città, e da lì ci sono bus piccoli che vanno a Salento. Non esistono diretti. A questo punto compriamo tra biglietti per Armenia, compito di Juli, mentre io e Carlo sorridiamo ascoltandola contrattare. Ci resta una mezz'ora prima della partenza del bus, e proviamo quindi a telefonare all'hostel che tutti ci hanno consigliato: il Plantation House. Dapprima il numero sembra scorretto. Domandiamo ad una signora che fa le pulizie, e ci dice che dobbiamo digitare un prefisso. Non lo sappiamo, e la signora ci accompagna ad un punto telefonico, dove ci danno il prefisso e ci fanno telefonare. Juli sorride, mentre ci racconta la telefonata: i proprietari non c'erano, le ha risposto un tipo che dormiva lì, e le ha detto che ci dovrebbe essere posto ma non era sicuro. Andiamo all'uscita dalla quale prenderemo il bus, e aspettiamo l'orario, si parte alle 15,30. Ci dicono che il viaggio dura 4 ore. Ovviamente, ne mettiamo in conto almeno 6. Puntualissimi, si parte, il bus è di quelli medi, con una ventina di posti a sedere, c'è poca gente sopra. Lasciamo Medellín, e un po' mi dispiace. La città aveva un suo fascino, e mi dispiace non aver rivisto Veronica, e mi dispiace lasciare il Palm Tree. Mi rendo conto che il bello di questi posti non è solo quello di costare poco, c'è anche un fattore che ti ci fa sentire a casa, anche se stai scomodo. E' davvero difficile da spiegare. Però, con noi c'è Carlo, e più il tempo passa, e più mi rendo contro della grandezza di questo personaggio. Se ce ne fosse ulteriore bisogno, me ne da un'ulteriore prova durante questo viaggio. Dopo pochi minuti attacca bottone con la ragazza che siede dietro di noi, che viaggia da sola. Alla fine del viaggio, anzi, già a metà, le strappa il numero di telefono e una specie di appuntamento per la domenica seguente. Che cazzo di personaggio. La strada è piena di curve, e l'autista viaggia alla grande, essendo giorno, avvantaggiato dal formato del bus, scopro che gli autisti dei camion che incontriamo sul cammino, fanno cenno all'autista del bus quando sorpassare, anche se siamo in curva. In effetti avevo notato, nei tragitti percorsi prima, un eccesso di sorpassi in curva, e mi sembravano piuttosto pericolosi. Ci fermiamo dopo qualche ora in un piccolo centro, e mangiamo frutta, ce la scambiamo io, Juli, Carlo e Sandra, la ragazza conosciuta sul bus. Decidiamo di comprare una bottiglia di rum, per la sera, da bere con coca cola, che compreremo poi. Si riparte, e pian piano si fa buio, ma non si arriva. Sandra scende in un posto che si chiama Chinchiná, noi invece continuiamo ben oltre le 4 ore. Non riesco a dormire come al solito, e guardo il paesaggio dal finestrino, quando non chiacchero con Carlo, perchè Juli dorme tranquillamente. Carlo ha una casa a Gubbio, di famiglia, ne sta costruendo una in Belgio tutta da solo; ha lavorato in miniera, e ultimamente come barman, ma mai lavori fissi. Lavoretto, poi viaggio. E' stato ovunque. Australia, Asia, Sud America. Non è sposato, non ha figli. Forse. E' davvero un personaggio da monografia. Oltrepassiamo Pereira, e mi rendo conto che è bella grande. Viaggiamo ancora. Arriviamo ad Armenia che sono quasi le 22. Il terminal, piuttosto piccolo, è pieno di gente, qualcuno piange per qualche partenza. Ci informiamo per Salento. A quest'ora non c'è niente, l'ultimo bus parte alle 20. C'è da rifare il piano. Nessun problema: guardiamo la Lonely Planet, telefoniamo agli alloggi più economici e domandiamo se c'è posto. Tutti d'accordo. Prenotiamo una tripla all'Hotel Imperial. Prendiamo un taxi e andiamo. Si vede che siamo in una città più piccola: il taxista non ci dice niente. L'hotel è a posto, ci registriamo velocemente, lasciamo i bagagli in camera e scendiamo per mangiare qualcosa. Pochi posti aperti, fortunatamente uno lì vicino. Qualche ubriaco in giro per i marciapiedi. Contratto un piatto di quelli classici (fagioli, riso, uova, insalata) senza carne, mentre il cameriere mi dice che mi costa lo stesso prezzo. Faccio cenno di si con la testa mente dentro di me penso "e che problema c'è?". Alla tele, calcio, di italiano si vede l'Inter, ci gioca Cordoba che è colombiano. Atmosfera rilassata, dopo una giornata piena con le gambe sotto al tavolino si sta bene. Paghiamo e torniamo verso l'hotel, Carlo si ferma a dare degli spiccioli ad un ubriaco, mi dice che non si sa mai, li vuole guardare tutti in faccia, tante volte uno di loro fosse suo fratello. Ci ridiamo su. In giro non c'è niente, quindi saliamo, ci beviamo una birra nella hall, mentre alla tele c'è un'intervista a un cardinale colombiano. Qui la chiesa è presente. Non hanno idea di cosa sia in Italia. Decidiamo di non aprire la bottiglia di rum, la riserviamo a Salento. Siamo stanchi, ma per assurdo la più stanca sembra Juli, quindi se ne va a letto, io e Carlo ci facciamo un'altra birra. Mentre ridiamo di niente, una ragazzina vestita poco chiede alla receptionist se può usare il bagno. Accordato. La guardo, la guardiamo. Carlo mi chiede se ci ho fatto un pensierino, io sorrido, lui mi dice che al massimo ci vogliono 10mila pesos. Non fatico a crederlo. Esce dal bagno e se ne va, Carlo mi chiede se la deve fermare, gli rispondo che è meglio se andiamo a letto. Finiamo la birra e diamo la buonanotte. Prima di coricarmi, scosto le tende e guardo in strada. La ragazzina di prima sta contrattando con uno dentro una macchina.
Spengo la luce. Penso al monte Ararat, al genocidio da parte dei turchi, al regista Atom Egoyan, ai System of a Down. Sto per addormentarmi ad Armenia, del resto. Buonanotte Aznavour, domani Salento.

20060224

detti livornesi


A
Alli zoppi pedate nelli stinchi.
Ama' senz'esse' amato è come pulissi 'r culo senza ave' caato.
A un livornese ci vole cento lire pe' fallo 'omincià e mille pe' fallo smette.
A Livorno, ’r peggio portuale sona ’r violino co’ piedi.
Acqua fino ai coglioni e pesci punti!
Avete mangiato nei bussoli fino a ieri!
B
Botta botta, fio secco!
Bella 'osa arzassi presto, fà un po d'acqua e tornà a letto.
Brutta in viso, e sotto il paradiso.
C
Che passione, avello di ciccia e baciallo di 'artone.
Chi ha potta ha pane chi ha cazzo more di fame.
Chi more puzza e chi vive sgalluzza.
Chi ride 'r venerdì e non ha chierica, sorride 'r sabato e piange la domenia.
Chi c'e l'ha più lungo se lo tira.
Chi un cià vaìni un'abbi voglie.
Chi và ar cesso e un caa bene, tre vorte và e tre vorte viene.
Cinque e cinque pane e torta.
Coscia lunga, taglio fine.
Culo alto, ci fò un salto
Chi lavora e si strapazza malidetta la su razza
Cià più ori leilì della Madonna di Montenero
Ca'are è facile , ma pigliallo in culo é un lampo.
D
Donna 'he dimena l'anca, se un'è puttana poo ci manca.
Di tre cose diffida nella vita: della volpe, del tasso e delle fie col culo basso!
Donna nana tutta tana
E
È meglio ave' paura 'e toccanne.
È come leccà la potta co' le mutande.
E 'onti tornano, i vaini no.
F
Facile trombà cor pipi ritto.
Fra r'culo e la fia c'è un passo di formia.
Fetta di 'ulo co pinoli.
Fa' vaini co' Pisani.
Forza buo passa le cee.
Fà da potta e da culo!
Fai onco ai ba'i ce'i
Fava ritta un vor consigli!
G
Gli amici sono 'ome ' fagioli: parlano dietro.
Grassezza mezza bellezza.
Giri più te della ròta de' 'icchi.
H
Ha preso più schizzi lei che li scogli di 'alafuria.
Hai caàto fori dar vaso.
Hai mangiato l'ovo n'culo alla gallina.
Hai voglia di bè ova! E...un ti rimetti!
Hai preso 'na popò di fiammata (rossata)!
Hai ma a puppammi la fava!
I
Ir bacio è 'na telefanata ar cazzo perché si tenghi pronto
I discorsi li porta via il vento, le bicirette i livornesi (e i bischeri nessuno)
L
La bella dalle lunghe ciglia: tutti la vogliono e nessuno la piglia.
La donna è come 'r maiale, 'un si butta via nulla.
La fia ci fa, la fia ci sfa.
La testa di sotto 'omanda vella di sopra.
Le novità di vesto porto? O piove, o tira vento, o sona a morto.
Le donne sono come le sarcicce: budelle fori, maiale dentro (e vanno consumate carde)
L'hai in Domo, come sonà a predìa.
La signora der Cignù, c'ha na fame un ne por più.
Le donne o so puttane o volano!
M
Meglio 'n quer corpo lì che 'n fanteria.
Meglio puzzà di merda 'e di povero.
Meglio un morto 'n casa che 'n pisano all'uscio.
Minestra riscardata 'n fu mai bona.
Ma vòi insegnà a babbo a pipà?
Meglio ave' i pantaloni rotti ar culo che un culo rotto ne' pantaloni.
Meglio invidiati 'he compatiti.
Ma te c'hai un ghiné in testa!
Maiale pulito un fù mai grasso.
Meglio lei nuda che te vestito a festa!
Meglio lei a letto che te a chilo!
Mi pai quello che mi caò sull'uscio e poi la rivoleva!
Meglio un culo piatto che un piatto in culo.
N
Ni fa come ir cazzo alle vecchie.
Ne per scherzo ne per burla 'ntorno ar culo un ci voglio nulla
O
O di paglia o di fieno, purché 'r corpo sia pieno.
Ogni bella scarpa doventa 'na ciabatta.
Onci onci onci, bevi di meno ponci, lo vedi 'ome ti 'onci a bé tutti ve' ponci.
Ogni testa dura trova 'r su' scoglio.
Onesto morì ner casino.
P
Piccino un lo senti, grosso ti fa male
Potta, bui di 'ulo e ponci.
Più schifo fai, meno spese hai.
Preciso 'ome un dito 'nculo!
Q
Quando r'culo caa e r'cazzo rende, vo 'n culo alle medicine e chi le vende!
Questa vì è di Gesù, dopo questa 'un ce n'è più!
Quaini e corna, chi ce l'ha son sua.
R
Regali fii boddoni.
S
Se 'r mondo fosse 'n culo, Livorno sarebbe 'r buo.
Se voi fa' 'n dispetto a Cristo, da 'n povero facci 'n ricco.
Si lavora, si fatìa, per 'er pane e pella fia, si lavora tutto l'anno ma la fia un ce la danno.
Senza lìlleri, 'un si làllera.
Se vo’ fa’ come ti pare, a Livorno devi andare.
Si sta meglio vì che sotto ar filobusse.
Se le troie volassero a te ti darebbero da mangià con la fionda.
Se donna 'un vòle, omo 'un pòle.
Sai 'osa, e ragioni vanto i vattro mori.
Sei più duro delle pine verdi.
Se t'avessi in culo t'andrei a caà alla meloria (cor vento di terra)
Sei morvidino te.
Sai 'osa e sei mutolino.
Sei 'ome Maria: larga di 'ulo e stretta di fia
Sei simpati'o come un gatto attaccato a 'oglioni
T...
Tanto mangio dall'orecchi!
Ti c'ho ner cuore ma ti vo' ner culo.
Tira piu un pelo di potta che un carro di bovi.
Tre donne fanno 'n mercato, quattro 'na fiera.
Tromba di 'ulo, sanità di 'orpo: aiutami 'ulo sennò son morto.
Trulli trulli, chi ce l'ha se li trastulli.
Tra scurregge e ruti Dio t'aiuti.
Tranquillo c'aveva le corna.
Tutti finocchi col culo dell'artri
Tre cose 'un si sopportano: gioà di nulla, bacio di moglie e caffellatte diaccio.
Te si che sei omo mia la tu moglie
U
'Un ti mette' 'n cammino se la bocca 'un sa di vino.
Un piscio mia darculo de' !
Un ciànno mia cresciuti a bucce di coomero.
'Un c'è ciuo 'he t'accontenti.
V
Voglia di lavora' sartami addosso, ma fammi lavora' meno 'e posso.
Vento di ponente: acqua fino a' 'oglioni e pesci niente.
Vestiti ammodino!

Ricavato da "http://it.wikiquote.org/wiki/Proverbi_livornesi"

i miei primi quaranta anni


E' arrivato. Il momento fatidico, quello che speri non arrivi tanto presto, è arrivato.
E' passata la mezzanotte, e d'improvviso, sono un quarantenne. Non so se splendido, come diceva Moretti, ma certo è che sono passati 40 anni da quel giorno del 1966.
Si nasceva ancora all'ospedale di Rosignano Solvay, pensate un po'.

E allora eccomi qui, senza la minima voglia di fare un bilancio, di mettere la testa a posto, di tirare le somme. Eccomi qui come ieri, un po' più di ieri, un po' meno di domani.

Non è un post scritto perchè mi facciate gli auguri nei commenti, bensì un post scritto pensando a voi, quelli che lo sanno chi sono, quelli che anche se non me lo diranno lo sentono dentro. Quelli che contano per me, e che fortunatamente, sono tanti.

Sto scrivendo troppi che, e non sarebbe un male se fosse all'argentina, come chiamano tutti, come chiamavano Ernesto. Quindi la faccio breve, e vi dedico le parole che mi salgono dal cuore, per ringraziarvi di esistere e di essere importanti per me. Eccole.

Più che vivi, più che ami.
A te caata!!

20060223

Colombia gen 06 - 34


Holiday in Colombia 19
23/1/2006 Medellín

Sveglia quando capita, ma sempre intorno alle 9, bagno e colazione, solite cose. Oggi ci dedichiamo interamente a Medellín, quindi rapidi e in marcia. Prendiamo la metro a Suramericana, che nonostante quello che ci disse il signore il primo giorno qui, è molto più vicina all'hostel. Cambiamo ovviamente a San Antonio, andiamo verso nord e a Acevedo cambiamo e saliamo sul metrocable, con lo stesso biglietto, senza uscire. E' una teleferica cittadina, con cabine che possono contenere fino a 6/8 persone, spartane ma comode e pulite. Le stazioni che si incontrano portano i nomi dei barrios che scorrono sotto di noi: Andalucia, Popular, Santo Domingo Savio. Ripensandoci adesso, per questo santo la regola non vale? Chissà. Sono i quartieri più popolari ed evidentemente più poveri, ma si vedono un sacco di lavori di ammodernamento in corso. Mentre arriviamo a Santo Domingo, in cima, Juli fa una riflessione a voce alta: democracia sería elección popular, pero la gente que vive aquí ¿qué tiene que elegir? Non è un problema solo di Medellín, ma di tutti i poveri della terra: che cosa possono scegliere? Con quale criterio? Chiunque passi e prometta qualcosa, gli daranno il voto. L'educazione sta alla base della democrazia. Beh, a pensarci bene, succede così anche quando non si è poveri, che ci si faccia abbagliare dalle promesse...ma questa è un'altra storia. Ci fermiamo senza uscire dalla stazione, c'è poco da vedere se non lo stupendo panorama della vallata e della distesa della città intera. La metro è pulitissima e sorvegliatissima, e per risalire nelle cabine per la discesa ci fanno scendere una rampa di scale e montarne un'altra, nonostante potessimo riprendere una qualsiasi delle cabine anche dalla parte dove siamo scesi. Fa niente. Sui tetti, qualche scritta inneggiante a qualche sindaco del passato, forse. Chissà com'è crescere qui.
Siamo di nuovo alla stazione di Acevedo, aspettiamo il treno per tornare in direzione sud. Ben due donne delle pulizie stanno lavando una colonna portante della costruzione. Scendiamo a Parque Berrio, praticamente in centro. Usciamo dalla stazione, che si trova praticamente attaccata al Palacio de la Cultura, e rimaniamo colpiti da un dipinto che si estende lungo tutta la parte inferiore della stazione; ci avvicina un poliziotto che si offre di raccontarci alcune cenni storici del dipinto in questione (è lì per quello, non crediate); attacca una solfa imparata a memoria, ma lo ascoltiamo volentieri. E' un affresco del maestro Pedro Nel Gómez, e rappresenta la storia della Colombia piuttosto orgogliosamente. Finita la cosa, gli chiediamo un'indicazione e, come al solito, non ci sa dare immediatamente una risposta, ci chiede di aspettarlo e si infila nella vicina stazione di polizia. Mentre lo aspettiamo divertiti, sentiamo uno scroscio d'acqua: uno dei poliziotti di guardia sulla porta della stazione ha preso un secchio pieno d'acqua e ha fatto fare il bagno a un ubriaco. Torna il nostro poliziotto e ci dà delle indicazioni confuse. Ci facciamo un giro fino al Parque Bolivar, che altro non è se non una piazza con un po' di verde, piena di gente, entriamo in una chiesa piuttosto brutta, poi cerchiamo un'agenzia di cambio, Juli deve cambiare dei dollari. Chiediamo indicazioni più volte, perfino in un punto di informazione turistica, ci indicano un palazzo. Chiediamo al portiere, e ci dice di seguirlo. Percorriamo il corridoio fino all'ascensore, e dietro l'angolo lo stesso portiere espone il tasso di cambio a Juli. Insospettita, Juli cambia meno di quello che aveva previsto. Non ci succede niente, ma ci pare molto strano. Continuiamo a camminare per strade e piazze piene di gente, giriamo intorno al già citato Palacio de la Cultura e ci ritroviamo in una bella piazza chiamata Plaza de las esculturas, piena di bronzi di Botero, sparsi qua e là. L'effetto è suggestivo, queste sculture rotondeggianti, nel classico stile dell'artista colombiano, si combinano in qualche modo col caldo e con i vecchietti seduti sulle panchine, con le persone che camminano in ogni direzione. Juli è ispirata, scatta qualche foto, poi ci avvicinano 4 bambini appena usciti da scuola, 3 maschietti e una femminuccia, ci facciamo una foto con loro, ci domandano curiosi da dove veniamo, e, ovviamente, l'Italia ispira, soprattutto nei maschi, un aaahh di ammirazione. Realizziamo di avere fame, e ci mangiamo un cornetto (al formaggio, of course) io, e una specie di polpetta di carne Juli, accompagnata da un bicchiere di coca cola per una cifra ridicola, dentro un locale che sembra un incrocio tra una bettola, un locale tipico americano e una mensa da ospedale, senza servizio al tavolo ma con una cassiera davvero poco disponibile. Sempre rimanendo sulla stessa piazza, ci infiliamo dentro il Museo de Antioquia, imponente già dall'esterno. Si sviluppa su tre piani, e anche qui Botero è stato determinante. Un'ala completamente (e giustamente, aggiungerei) dedicata a lui, forse anche migliore della collezione vista a Bogotà, una sala dedicata al figlio morto piccolo (Pedrito), alcune sale con opere di altri artisti da lui donate a più riprese al museo, e poi sala pre-ispanica, sala coloniale e repubblicana, sala Manuel Uribe Angel (personaggio fondamentale nella storia di Medellín), ritratti del secolo diciannovesimo, sala fotografia, sala artisti nazionali (alcuni davvero interessanti), sale dedicate a Francisco Antonio Cano e ai suoi allievi, sala sculture, sala artisti della regione di Antioquia in ordine cronologico, alcune sale dedicate a Pedro Nel Gomez, presente anche con altri grandi affreschi nella tromba delle scale, e un'ala dedicata all'arte contemporanea molto interessante. Una visita soddisfacente, che mi fa venire fame sul serio. Un'occhiata allo shop del museo, e dopo una visita al bagno (i bagni dei musei sono sempre di gran lusso, ed è bene approfittarne quando si viaggia da mochileros) insisto per sederci ad un tavolo del ristorante del museo, anche se, come potrete immaginare, non è così economico. Juli si chiama fuori, e io finalmente ordino esaltatissimo delle lasagne vegetariane, che giganteggiano sul menù, oltre ad una porzione di patate fritte, che ci stanno sempre bene. Mi sento già molto meglio, quando la cameriera mi dice, incurante dell'espressione del mio viso che improvvisamente cambia come cambiava a suo tempo un Big Jim due volti mediante una leggera pressione sulla testa, che le lasagne veg sono terminate. Mi arrendo alla fame, e confermo la porzione di patate e la coca cola, che arrivano dopo un lasso di tempo improponibile per qualsiasi ristorante normale. Studiamo l'itinerario per quando lasceremo la città, cioè domani, e decidiamo le mete per il resto del pomeriggio. Beh, almeno le patate sono buone, e la coca cola mi disseta.
Ripartiamo, riprendiamo la metro a Parque de Berrio in direzione sud, e scendiamo, dopo esserci informati, a Exposiciones, direzione Pueblito Paisa sul Cerro Nutibara. Pare ci sia una ricostruzione di un vecchio paesino antioqueño e un mirador, un posto con una vista sulla città molto suggestivo. La salita è di quelle che potrebbero stroncare anche gente allenata, però è nel bel mezzo di un bel parco abbastanza ombreggiato. Ci vuole tutta la tenacia che sto scoprendo dentro di me, in una parte che fino a pochi giorni fa era accuratamente nascosta chissà dove. Il pueblito è carino, la vista interessante, quando siamo in cima l'atmosfera è soddisfacente e soddisfatta, tra me e la mia compagna di viaggio. Ci riposiamo, soprattutto perchè so bene che la discesa, per le mie povere e disastrate caviglie, è quasi peggio della salita. Quando arriviamo nei pressi della stazione metro dove siamo scesi, Juli propone di tornare a piedi verso l'hostel, fin dove resisterò. Seguiamo passo passo il percorso della metro, e alle brutte la riprendiamo, se non dovessi farcela più. La giornata è bella, la città non sembra pericolosa, camminando si vede meglio e si passa in mezzo alla gente. Accetto di buon grado, ormai mi sento davvero un viaggiatore pronto a grandi sacrifici. E, detta così, fa davvero ridere. Sulle rive del Rio Medellín ci sono ornamenti, luci, enormi pupazzi di carta su intelaiature di metallo, il Natale qui è sentito e la città si veste a festa. Juli smania per andare a vedere i pupazzoni da vicino, io che ho visto i carri di Viareggio non sono così entusiasta, e poi mi rendo conto, molto meglio di Juli, che attraversare queste due strade enormi che ci dividono dalla riva del fiume sarà un'impresa da non sottovalutare. Infatti è così: il flusso del traffico è devastante, e ci vuole coraggio, corsa e una buona dose di fortuna per riuscire. Impieghiamo una decina di minuti abbondanti, e quando arriviamo ai pupazzoni mi rendo conto che avevo davvero ragione, i carri di Viareggio sono un milione di volte più belli, ma non insisto più di tanto sull'argomento, non vorrei risultare l'europeo sbruffone. Per tornare sul cammino che ci eravamo prefissati dobbiamo attraversare di nuovo le due arterie, e le risate per non piangere si sprecano. Però generano allegria. Camminiamo nel mezzo a flussi di persone che si intensificano man mano che ci avviamo verso il centro città. Sostiamo su una panchina mangiando un grappolo d'uva comprato da Juli, riposando i miei piedi stanchi e il mio cuerpito de mierda, che tanto sta soffrendo. Affrontiamo argomenti piccanti, stimolati da alcuni fondoschiena femminili decisamente degni di nota, il grado di confidenza tra compagni d'avventura si innalza andando in là col viaggio.
Riprendiamo il cammino, e pieghiamo verso ovest (verso l'hostel) un po' prima della stazione di San Antonio, passiamo davanti alla Estación Medellín, al moderno centro administrativo La Alpujara, attraversiamo Plaza de Cisneros, una piazza modernissima con piccoli obelischi di cemento con luci in testa, che ricordano un po' degli alberi spogli, per arrivare alla altrettanto moderna, e quasi futuristica biblioteca tematica EPM, che però risulta chiusa. Peccato, sembrava interessante. Riprendiamo il percorso della metro attraversando un quartiere, anzi due, Guayaquil e Corazón de Jesus, che non sembrano proprio tra i migliori, ma è un'apparenza, c'è gente in giro e non succede niente, anche se il sole sta tramontando. Arriviamo però ad un punto dove è impossibile proseguire a piedi seguendo la metro: una avenida enorme, ma soprattutto di nuovo il Rio Medellín, difficile da attraversare senza un ponte. E' necessaria una deviazione, e con l'aiuto di una mappa turistica, e del mio ottimo (non sto scherzando, qui prendo in mano la situazione, forse per la prima volta) senso dell'orientamento, decidiamo per un giro largo che ci porta al puente avenida Colombia che ci fa entrare nel quartiere Suramericana, che, scopriamo passandoci davanti, prende il nome dalla enorme sede di una società assicurativa. Il quartiere è quello dell'hostel, e, passato il ponte troviamo indicazioni per il supermercato davanti al Palm Tree. Non ci resta che seguire le indicazioni. Pochi minuti e arriviamo. Nonostante passiamo davanti al supermercato, non entriamo, visto che manca ancora un po' alla chiusura, e decidiamo di passare prima all'hostel per sentire se gli altri hanno intenzione di mangiare insieme a noi, in modo da fare la spesa cumulativa. Incontriamo Carlo, decidiamo noi per tutti e torniamo a fare la spesa, altra pasta, e qualcosa per il giorno dopo.
Rientriamo, mi lavo e come la sera prima riproponiamo la coppia di cuochi italiani. Grande successo, al punto che Holly, l'inglese con la maglia del Barcelona mi vuole assumere come cuoco personale. Si aggiungono anche i due australiani surfisti, che nonostante dei panini enormi mangiati poco prima non disdegnano la pasta, e una spagnola non bellissima ma molto espansiva. Dopo cena, siamo in tanti al tavolo, e scattano i giochini con le domande piccanti. Stupisco tutti con la mia fantasia sessuale, li straccio. Nessuno pensa ad una donna con l'apparecchio per i denti come a una fantasia sessuale orale. Sono avanti, troppo avanti.
Le birre volano, e si fa tardi. Vado a dormire, ma finché al piano di sotto c'è ancora gente che rumoreggia non prendo sonno, i materassi continuano a non essere tali, così, anche se sono molto provato fisicamente, le ore di sonno risultano pochine. Il tedesco che dorme sotto di me ha i tappi per le orecchie, e dorme alla grande. Non importa. Domani si viaggia di nuovo.

confraternita

stavo leggendo ieri sera la confraternita dell'uva di john fante, verso la fine del libro nick molise sembra che stia per morire.

ho pensato: se morissi domani, come mi dovrei sentire oggi?

bhe mi sentirei pulito, morirei da innamorato di tante persone, a cuore aperto.

mi sono addormentato leggero.

Colombia gen 06 - 33


Holiday in Colombia 18
22/1/2006 Santa Fé de Antioquia, escursione multinazionale

Mi sveglio verso le 9, senza sapere assolutamente cosa ci riserva il programma della giornata, ma non fa niente. Tra l'altro, oggi è domenica. Scendo per fare un po' di colazione, la cucina è piena di gente che si prepara la colazione nei modi più strani e diversi. E' una bella sensazione, a ripensarci, sul momento, quando hai ancora sonno, non molto. Juli è già sveglia e sta chiaccherando a raffica, e pian piano metto a fuoco che si sta definendo un possibile programma per la giornata: gita a un paesino "vicino", che risponde al nome di Santa Fé de Antioquia. La proposta viene da alcuni personaggi presenti al Palm Tree, citati ieri, soprattutto da Carlo, l'italiano. Onestamente, la prima impressione che mi ha dato ieri non è stata super; sembrava uno di quegli italiani che si parlano addosso. Invece, avrò modo di ricredermi e di farmi un'opinione completamente opposta a quella iniziale, come spesso accade; ma di lui vi parlerò un po' alla volta, così come un po' alla volta l'ho conosciuto io, ed ho imparato ad apprezzarlo. Per adesso, vi basti sapere che è senza dubbio il più propositivo. Juli sembra entusiasta, io accetto senza problemi. Il primo passo è andare al terminal dei bus, e visto che siamo in otto, prendiamo due taxi. Il conto che fa rapidamente Carlo convince rapidamente Juli: essendo quattro per taxi spendiamo meno che andando in metro.
A questo punto però, devo almeno presentarvi i componenti della spedizione. Di Carlo vi ho già parlato brevemente, ma vi dò ancora qualche indizio. Ha 46 anni, umbro ma di base in Belgio, dove vive tutta la sua famiglia, parla un italiano scorretto, buffo alle mie orecchie, oltre a francese, olandese, inglese (ottimi), castigliano (non perfetto, peggiore del mio) e chissà che altro. Non dimostra per niente la sua età, ma non per questo lo vedrete mai in difficoltà, è sempre sicurissimo, ma mai sbruffone e sempre, sempre allegro. Poi c'è Myriam, francese, trentenne, della zona di Grenoble forse, mora, capelli lunghi, bel viso, dove però si notano i trent'anni. Simpatica ma puntigliosa, a volte un po' rompicoglioni. Sulle prime, cioè fino a quando saliamo sul bus, io e Juli siamo convinti che lei e Carlo fanno coppia. Invece no, si sono conosciuti qui al Palm Tree. Fa lavoretti part-time, soprattutto come hostess di convention, manifestazioni, cose così. Poi c'è Didier, il francese biondo, che ieri sera doveva uscire con noi ma poi è sparito (era a letto a dormire, scopro questa mattina, era stanchissimo). E' di Nizza, non timido ma leggermente riservato, non parla tantissimo se non interpellato, pare che studi per diventare professore, non chiedetemi di cosa. Jerome è l'altro francese, del nord, moro, piccolino, viso da topolino. Entrambi sotto i 30 anni. Poi c'è Johann, tedesco, alto e snello, faccia scavata, ovviamente biondo, capelli medio-lunghi, ha sui 38 anni, lavora nella metalmeccanica, ha girato il mondo anche lavorando, addirittura scopro che ha lavorato a costruire uno stabilimento della società dove lavoro, in Spagna. Sta insieme all'altra Miriam, colombiana, un po' più giovane di lui, mulatta, non altissima ma bellissima e molto attenta ai particolari e al modo di vestire. Lei parla poco, lui se parte non si ferma più. A me e a Juli già ci conoscete. Si parte.
Arriviamo al terminal, e Juli si incarica di cercare il passaggio e di contrattare, dopo pochi minuti partiamo. Si vocifera ci vogliano un'ora e mezzo, al massimo due ore, anche se si sale e la strada è stretta. Johann e Miriam sono accanto, Jerome e Didier pure, Carlo accanto a Juli, io accanto a Myriam. La prima mezz'ora è di conoscenza, Myriam è un personaggio interessante, l'ora seguente è quasi esilarante. Myriam inizia a lamentarsi della guida dell'autista, e dopo una decina di minuti che parla ininterrottamente la invito a tacere con un gesto classico, nel repertorio di ogni uomo che si rispetti: il famosissimo "metti la testa a posto", dove si appoggia dolcemente il palmo della mano destra sulla nuca della donna e poi con un colpo secco si porta la testolina della ragazza verso il proprio pube. L'ilarità si impossessa della comitiva e di buona parte del bus. Il viaggio supera le due ore e non si vede l'ombra di Santa Fé. Pare che ci dovesse essere da passare per un tunnel, ma che sia chiuso, quindi il giro si allunga. Sonnecchiamo un po'. Poi facciamo amicizia con un bambino che scorazza per il corridoio, il dialogo è divertente, soprattutto quando inizia a chiederci di dove siamo e perchè stiamo viaggiando insieme.
Dopo quasi 4 ore arriviamo. Partiamo alla scoperta di questo pueblito. Ripida salita per entrare in paese, pochi metri ed ecco la piazza principale ornata di bancarelle; ai lati della piazza, ovviamente coloniale, un sacco di bar, tavoli e sedie a volontà. Beviamo qualcosa, Carlo sparisce e torna con una ragazza: è Stella, colombiana adottata da genitori svizzeri, è qui per ritrovare le sue radici, ma non è ancora sicura se vuole conoscere i suoi genitori biologici. E' mora, capelli ondulati, scura di pelle ma ha le lentiggini, particolare curioso, non è affatto male, anzi, ma la cosa più bella è che, quando Carlo me la presenta, dicendole che sono italiano, lei che mi aveva già sentito parlare un po' mi dice "si sente che sei toscano" e lo dice esattamente come lo avrebbe detto il poliziotto Huber interpretato da Aldo di Aldo, Giovanni e Giacomo. Ovviamente glielo faccio notare immediatamente, e lei scoppia in una risata che però ha un fondo malinconico, un po' come il fondo dei suoi occhi. Dopo qualche titubanza e l'ordine sparso nella piazza, decidiamo che senza mangiare non si sopravvive, e ci infiliamo in una pizzeria gestita da due ragazze che probabilmente concorrono per miss cicciona Colombia. La tavolata, visto l'ordine sparso, si allunga ogni 5 minuti, e alla fine ci siamo tutti. Ho voglia di pizza, anche perchè sarebbe la cosa più semplice, ne prendo una a metà con Jerome (ci sono le "taglie", 3 diverse, delle pizze attaccate ad una parete, e ci sembra che una in due ci possa bastare). Domando cosa c'è nella pizza al queso, e mi viene risposto che c'è solo formaggio, quindi ok. Quando la portano, c'è si il formaggio, molto, ma anche il prosciutto crudo a quadratini. In Colombia ci va per default il crudo sulla pizza. Poco male, lo scanso e se lo mangia Jerome. Gli altri ci danno giù di pollo, soprattutto fritto, ma anche di bistecchine e patate fritte. Si ride e si mangia.
Quando arriva il conto, rimango di sasso: spendiamo una sciocchezza. Il pensiero di ieri, che forse è giusto che la pizza costi molto, era sbagliato. Sento impellente il bisogno del bagno, e i francesi mi augurano buona fortuna. Quando esco, dichiaro che è uno dei bagni migliori che ho visto qui: ormai ho visto di tutto. Estoy acostumbrado.
Dopo aver soddisfatto l'impeto nutrizionale, e quello fisologico, scendiamo al rio. Discesa ripida tra case improbabili, povere ma allegre, da una sento uscire le note dei Sigur Ròs. O forse ho una allucinazione uditiva dovuta all'eccesso di musica latino-americana. Bambini per strada, gente comune, salutiamo tutti e tutti ci risalutano. Chiediamo indicazioni per il rio, ci guidano. Arriviamo, e c'è un sacco di gente a bagno, ragazzi che sguazzano, famiglie intere. Molti di noi si buttano, si bagnano, giocano, qualcuno prende il sole, che picchia forte. Mosche e zanzare la fanno da padrone, e anche qualche vespa. Ho le gambe piene di pinzi, mi riprenderò solo al mio ritorno in Italia. Io mi bagno solo i piedi, l'acqua è marrone e non mi fa impazzire. Jerome si fa il bagno con i pantaloni lunghi, Carlo in mutande, mutande che, alla fine, risulteranno piene di fango. Non si perde d'animo, e quando si riveste si mette i pantaloncini senza niente sotto e butta le mutande nel fiume. I ragazzi del paese scendono la corrente a cavallo di camere d'aria da camion. Lentamente, torniamo verso il "centro". Carlo vede dentro un recinto dei peperoncini strani, vede il padrone e chiede se ne può prendere un paio, permesso accordato. Che faccia che ha. Parla con tutti. Lo invidio un po'. Mi ricorda mio padre quando è davvero in forma.
Ci sediamo al tavolo di un bar, qualcuno scorrazza per il paese. Beviamo birra e parliamo fitto, io, Carlo e Johann. Il tedesco mi dice che quando tornerà in Germania, tra qualche giorno, non sa se l'auto gli ripartirà: sono due mesi che è ferma all'aperto, e in Europa non fa quel caldo afoso. Poi ci dice che vuole lavorare al massimo altri 10 anni, poi insieme a Miriam vorrebbe comprare qualcosa qui in Colombia, magari sul mare. La vita costa poco, e il clima è ottimale. Qualcuno ordina guanabana con latte: è un qualcosa di paradisiaco. Cala il sole, beviamo qualche altra birra, gli altri vanno e vengono tra il tavolo e il mercatino della piazza, le viuzze, le chiese. Ci muoviamo verso il punto d'arrivo del bus, per chiedere gli orari, ma soprattutto se c'è posto. E' domenica, e questa è una meta anche per i colombiani, una specie di "gita fuori porta" da Medellin. Troviamo posto per miracolo, l'ultimo bus è alle 20, ci sono 5 posti, ci vendono quelli e 3 in piedi o a sedere nel corridoio, ma non sono ancora le 19. Torniamo verso la piazza, ancora ordine sparso. Facciamo due conti, e realizziamo che arriveremo a Medellin molto tardi, ci va già bene se quando arriveremo all'hostel ci lasceranno usare la cucina (il limite sono le 22), il supermercato di fronte oggi chiude alle 20, quindi io e Carlo decidiamo cosa fare per cena e facciamo un po' di spesa per tutti: spaghetti, giù al Palm Tree c'è un po' di rattatouille avanzata da ieri sera a Myriam e Carlo, useremo quella come salsa, un po' d'insalata per Myriam che insiste. Vado a vedere un paio di chiese con Miriam, Juli e Jerome. Verso le 19.45 torniamo verso quella sorta di capolinea; quando siamo lì, ci informano che il bus tiene un poco de retraso. Non quantificabile. Bivacchiamo sugli scalini del capolinea insieme a gente locale, c'è chi sonnecchia per terra. Sento un languorino, faccio tesoro di quello che mi aveva detto nel pomeriggio Johann, il guanabana è ottimo quando hai un po' di fame: c'è un posto proprio lì davanti che lo vende. Mi seguono in diversi, sto pensando di chiedere la percentuale sulla pubblicità che gli ho fatto. Non ho il cellulare, l'ho lasciato sotto carica grazie ad un adattatore che mi ha prestato Johann, dopo che ho scoperto che quello che ho comprato a Bogotà funziona male. Non posso accenderlo per leggere gli sms che mi comunicano il risultato della partita del Livorno di oggi. Sono curioso. I telefoni per strada, ce ne sono due anche qui davanti, sono solo per telefonate nazionali. Soffrirò fino a Medellin. Passate le 20.30, la tipa che ci ha venduto i biglietti ci comunica che il bus arriverà tra poco, e che ci saranno tutti e otto i posti a sedere. Passa ancora un po' di tempo e il bus arriva davvero, si parte. Siamo stanchi, quasi tutti dormono. L'autista va come una scheggia, e mi ricordo solo ora che Montoya è colombiano. Dopo un'ora e mezzo siamo al terminal di Medellin: Carlo mi dice che il famoso tunnel era aperto adesso, ecco perchè abbiamo fatto presto. Come all'andata, due taxi e via verso il Palm Tree.
Sono quasi le 23, ma nessuno ci dice niente, siamo troppi. Rapida occhiata al cellulare, il Livorno ha pareggiato in casa col Treviso, terzo pareggio consecutivo. Almeno muoviamo la classifica. E siamo sempre quinti, che stagione! Cominciamo a cucinare, ci laviamo a turno, io e Carlo ai fornelli, oltre al gruppo della spedizione vorrebbero mangiare anche Holly, l'inglese, e il giap chiaccherone. Ci stanno dentro. Scopro che Carlo è qui perchè sta cercando suo fratello, scomparso un anno fa, stava facendo tutta l'America in bicicletta, e l'ultima lettera che ha scritto a casa l'ha spedita da Medellin. Che storia. Dopo una mezz'ora dal nostro rientro, siamo a tavola: ci sono spaghetti alle verdure e insalata, più un bel piattone colmo di frutta strana fornita da Jerome, e presentata da professionista. Sembriamo una di quelle famiglie contadine numerose, riunite attorno alla tavola imbandita. Le birre costano poco qui al Palm Tree, come vi avevo già detto, e da quante ne vanno via sono calde, il frigo non ce la fa a contenerle, e bisogna ricordarsi di mettercene un po', man mano che le consumiamo. Si fa tardi allegramente, parlando di viaggi, passati e futuri, progetti e speranze. Un cazzo di G8 che ama i poveri e non vuole la guerra. Nessuna zona rossa da difendere. Nessun pregiudizio. Nessuna frontiera.
Com'era....nostra patria è il mondo intero. Buonanotte mondo.

20060222

hey tu

ti do uno stiaffo da quanto ti metto in confusione t'inizzi a picchià dassolo

cindarella she seems so easy

sono andato a letto tardi e ho dormito con un sonno troppo leggero. da alcuni giorni penso che potrei commettere azioni di cui mi pentirei successivamente, ma una parte di me le vorrebbe fare. nel profondo. poi arriva l'occasione e mi fermo, indeciso, in difesa. non sferro il colpo. ci ripenso.
mi sembra a volte più facile non fare.
vorrei poter decidere di lasciare tutto. o quasi.

20060221

ventuno

dormo circa 8 ore a notte. 1/3 della giornata. il sabato e la domenica anche 11 ore se nessuno mi sveglia. durante il giorno sto per la maggior parte del tempo seduto su una sedia, abbastanza fermo, muovendo le mani velocemente sulla tastiera. le mie nuove scarpe mi permettono di giocare a calcio con molto più controllo del pallone. per questo sono soddisfatto. ieri sera cercavo di suonare con l'organo bontempi alcune mie canzoni. il risultato non è stato entusiasmante. mi piacerebbe avere una tastiera leggera, non midi come quella che già ho, per poterla utilizzare in qualche concerto. non sopporto la gente che si lamenta in modo coordinato e continuativo. la zuppa di zucca è qualcosa di fenomenale. comunque le zuppe di verdura più buone le ho mangiate a zurigo alla rote fabrik. la rote fabrik è un posto fico. lo consiglio a chi va a zurigo.

anche questa non è male

20060220

Colombia gen 06 - 32


Holiday in Colombia 17
21/1/2006 Medellin città aperta

Penso, anzi ripenso. Ripenso a Peter, che fino alla fine del viaggio (e anche oltre) ci ricorderemo con amicizia e simpatia. Invidio il fatto che a 19 anni stesse in giro per il mondo, con la sua faccia da svizzero-tedesco, da uomo-bambino, sempre pronto a scherzare e ad aiutarti, ma che si incazzava se gli davano del gringo, e a quella volta all’uscita del Tayrona quando mi disse “Voglio smettere di dire che sono svizzero. Sono tutti convinti che gli svizzeri abbiano i soldi. Non sono ricco!”, a come mi spiegava che lui non era proprio di Berna, ma di un piccolo paese lì vicino, un paesino di contadini, con le mucche al pascolo proprio come in Colombia, dei genitori, divorziati, del fidanzato della madre, davvero comunista, degli amici di sua madre che si erano trasferiti in Malesia, e stavano bene, avevano comprato un pezzo di terra e davano lavoro a parecchia gente del posto. Entusiasmo giovanile, trasporto sentimentale (sembrava sempre innamorato, e il giorno dopo aveva il cuore spezzato, ma sempre col sorriso sulle labbra). Parlava quasi sempre sotto voce, nonostante avesse la voce profonda, ma rideva forte quando si divertiva (spesso), e la alzava solo quando scherzavamo prendendoci in giro reciprocamente. Al contrario dei tre italiani che incontrammo a Cartagena, durante il city tour, gli impresentables. Occhiali a fascia, maglie senza maniche, catenoni e braccialetti, voce alta, non una parola di castigliano, gli ultimi ad arrivare, sempre, chiassosi e poco interessati ai particolari. Señora, no todos son así en Italia, se lo juro.
Il viaggio diventerebbe inquietante, se non fossimo di buon umore. Arriviamo a Medellin che sono quasi le 16. Non voglio fare il conto delle ore che abbiamo passato in bus. Mi rifiuto. Mi rendo conto che il mio non avere fame, finché sono in viaggio sul bus, ha radici psicologiche; evidentemente ho sempre paura che viaggiare a stomaco pieno mi faccia male. Da qui la mia indecisione cronica durante le soste, che mi sembrano sempre troppo brevi, ma che in effetti durano abbastanza. Il fatto è che mi bloccano anche le visioni degli autisti che, mettiamo, la mattina alle 8 fanno colazione con una zuppa e un piatto pieno di carne, uova, riso, fagioli e altro. Extraño cappuccino e pezzo dolce, non lo posso più negare. Inoltre, altro fattore determinante, i bagni dei bus sono talmente piccoli che non ci entro. Non è uno scherzo: se provo a mettermi a sedere, non sono in grado di far rientrare il pisello nella circonferenza della tazza. Questo vuol dire che, se dovessi fare la pipì, dovrei farla in piedi, ma le scosse lo impediscono. Anche cacare sarebbe complesso, per cui mi tengo ultra-leggero ed evito di aver bisogno. Fine dell’intermezzo poco fine.
Arriviamo al terminal nord di Medellin. Qualche giorno dopo scopriremo di essere stati piuttosto fortunati, questo è praticamente adiacente ad una stazione della metro, Caribe, quello sud no. Il terminal è probabilmente uno dei più belli che vedremo. Telefoniamo per fissare un posto per dormire, poi ci informiamo su come arrivare. Normalmente queste indicazioni complesse le domanda e ascolta la risposta Juli, io provo ad ascoltare ma non capisco niente, troppo rapide. Ci imbarchiamo nella metro. E’ molto moderna, a doppio binario, tutta sopraelevata. Somiglierebbe a quelle spagnole, Madrid e Barcelona, se non fosse, appunto, per il fatto che non è sotterranea. Indoviniamo la direzione, ma evidentemente ci hanno dato un'indicazione sbagliata, o abbiamo capito male. Infatti, prima di uscire dalla stazione dove a Juli è stato detto di scendere, Prado, chiediamo indicazioni su come raggiungere l’hostel dove abbiamo fissato ad un policia; dopo un giro di telefonate, e un briefing con la donna delle pulizie (si, perché i ragazzi della polizia sono gentilissimi e disponibilissimi, ma non sanno niente; evidentemente nessuno è di città, tantomeno di quella città. Inoltre, in ogni stazione c’è un poliziotto e almeno una donna delle pulizie. Così, tanto per darvi un’idea), ci indicano l’itinerario preciso. Dobbiamo risalire sulla metro, raggiungere la stazione di cambio, o di transferencia, la stazione di San Antonio (ne approfitto per fare il figo e spiegarvi una regola del castigliano che ho imparato in questo viaggio; i nomi dei santi, quelli maschili, anche se cominciano per vocale, non prendono, come in italiano, il prefisso sant e l’apostrofo, anche perché in castigliano l’apostrofo non esiste), prendere la linea che va verso il capolinea San Javier e scendere a Suramericana. Grazie muchísimas. Durante il tragitto, un signore ci domanda dove andiamo, Juli gli mostra l’indirizzo, e lui ci dice che invece ci conviene scendere a Estadio (chiaramente, la stazione vicina allo stadio), perché per arrivare a quell’indirizzo se scendiamo alla fermata che ci hanno detto, dobbiamo salire, mentre se scendiamo dove dice lui la strada è in discesa. Ci fidiamo, perché è una prerogativa del viaggio: confíar en la gente. Incontriamo qualche difficoltà nel rintracciare l’indirizzo: le strade sono numerate, come nella maggior parte delle città colombiane, si incrociano carreras e calles, ma sono anche sottonumerate (esempio: carrera 4, 4a, 4b, 4c e così via). Camminiamo un po’, ma alla fine rintracciamo l’hostel, il Palm Tree. Bello forse è una parola che non si addice agli hostel, ma in questo caso è quasi appropriata. Cucina, bar, sala tv, sala pranzo, patio, amache, internet, caffè gratis, birre e bibite a prezzi convenienti, servizio di lavanderia non troppo costoso, almeno due ragazze che lavorano lì davvero carine, avventori di tutto il mondo e, per la maggior parte, simpatici. Camerate da 4 posti, due letti a castello. Per una strana combinazione, io finisco in una camerata al primo piano, Juli a pianterreno. Ci avevano proposto un letto matrimoniale, ma ovviamente Juli si oppone, io taccio. Su queste cose non mi faccio problemi: quando vado a Roma dormo nel letto con Fabio, figuriamoci se mi faccio problemi a dormire con una donna! Tornando al letto a castello, sono al piano di sopra sia dell’hostel, sia del letto a castello. Al piano di sotto c’è un tedesco piuttosto taciturno. Usciamo, proprio davanti c’è un iper-mercato, facciamo un po’ di spesa, io ne approfitto per mangiare una pizza, adesso ho davvero fame. Juli non ha fame, dice, io ordino una pizza enorme, non ce la faccio a finirla, Juli ne prende uno spicchio. Questa sarà la mia tattica in queste occasioni. Noto che la pizza costa cara. Forse è anche giusto. Questo supermercato è enorme, inoltre ci sono almeno 10 posti per mangiare, altri tipi di negozi, 2 bancomat. Un’altra cosa che notiamo è che le confezioni sono tutte da famiglia, enormi, appunto.
Rientriamo al Palm Tree, tentiamo di contattare Catalina per telefono. Le comunicazioni sono difficili, ma riusciamo a fissare per dopo cena. Familiarizziamo con la popolazione dell’hostel, ci sono inglesi, australiani, un tedesco che sta con una colombiana mora, un’altra colombiana bionda che sta con un inglese taciturno, un paio di ragazzi francesi e una ragazza francese, un tipo che sembra italiano ma non si capisce bene. Poi ci sono due giapponesi, uno praticamente muto, l’altro che parla anche troppo. Ci laviamo, mangiamo qualcosa, io ovviamente ho poca fame dopo la grande pizza, siamo pronti ad uscire, l’appuntamento è per le 22, dobbiamo prendere la metro. Il giapponese parlante ha detto che viene anche lui, ma è sparito, inoltre anche uno dei francesi, Didier, sembrava di questa idea, e anche di lui si sono perse le tracce. Si rivede il giapponese, ma non è pronto: ci dice se possiamo aspettare, perché ha chiamato un suo amico che sta arrivando. Mando un sms a Cata, dicendole che faremo tardi. In pratica, facciamo tardi. Il fantomatico amico del giap non arriva, alle 22,15 abbondanti usciamo, prendiamo la metro, cambiamo a San Antonio e arriviamo a Poblado (sull'altro "ramo" della metro, rispetto a quello da dove siamo arrivati oggi) quasi alle 23. Seguiamo le indicazioni che ci ha dato, e la troviamo, nella sua twingo con l’amico Andres. Il programma è: andiamo a casa sua, lasciamo la macchina e andiamo a piedi verso la zona rosa, così si definisce la zona dove si trovano i locali notturni, in qualsiasi città colombiana. Purtroppo, Veronica non è dei nostri: è uscita con il pollo. Il quartiere è della medio-alta borghesia, scopriremo più tardi che i genitori si sono ritirati in campagna e hanno lasciato la casa alle ragazze. La madre è antropologa. Andres è simpatico, sembra uno degli Strokes, e parla a mitraglia, ma gli sto dietro. Andiamo in una piazza, che, ci dicono, è l’unica dove si può bere alcol all’aperto, e partiamo con le birre. Ci sono centinaia di persone, tutte allegre, tutte giovani. In un intreccio di saluti, parliamo delle solite cose, ma è interessante parlarne con gente nuova. Andres mi spiega che, ovviamente, se qui vuoi della droga, di qualsiasi tipo, non fai altro che chiedere, e costa pochissimo. Era piuttosto chiaro, ma è giusto sentirlo dire da qualcuno che vive qui. Ci spostiamo in un altro locale, il Berlin. Beviamo qualcosa, Cata e Andres salutano gente, il giap insiste per la discoteca. Ci mettiamo in fila davanti a quella che lui dice essere la migliore, e arriva la notizia della serata: io non posso entrare, ho i pantaloni corti. Tutto il mondo è paese. Rido sotto i baffi. Il giap mi suggerisce di andare all’hostel a cambiarmi i pantaloni. E’ l’unico che ci prova. Vado a rimorchio degli altri, verifichiamo altre discoteche, ma in tutte sono inflessibili, non posso entrare. Andres si allontana con una ragazza. Torniamo al Berlin, prendiamo un tavolo, ci raggiungono due amici di Cata: Juan David e un altro Andres. Juan è piuttosto taciturno, Andres per niente, e diventiamo subito molto amici. Le birre girano vorticosamente, Cata e Juli parlano fitte, così come io e Andres. Calcio, donne, Andres mi dice che mi devo sforzare di non parlare correttamente castigliano, se le donne sentono che sono italiano è fatta, e si esibisce in una spettacolare lezione di castigliano con pronuncia italiana. Esce fuori che tra Cata e Andres c’era del tenero, quindi cominciano accuse scherzose, racconti piccanti, si introduce Juan che porta altri esempi di rapporti complicati, ridiamo da matti. Il giap sembra fuori dalla serata, pensa solo alla discoteca, e dopo un po’ ci lascia. Se non ricordo male, Juli mi ringrazia per i pantaloni corti, la discoteca dove voleva entrare il giap era tutta musica techno, non l’avrebbe sopportata. Prendo le parti dell’amico Andres, intercedendo per una riappacificazione con Cata. Chiaramente pretendo collaborazione segreta da parte di Andres per raggiungere Veronica. Parliamo un po’ di musica e gli cito gli And You Will Know Us By The Trail Of Dead, non li conosce, non è in grado di ricordarsi il nome, gli prometto che se Cata mi farà avere la sua mail gli rimanderò il nome insieme ad altre segnalazioni. Continuo a pensare che ci si diverta più così che in discoteca. Sono le 3, sta chiudendo tutto. Torniamo verso la piazza dove si può bere fuori, e ci salutiamo. A Juli piange un po’ il cuore, ma dobbiamo prendere un taxi. Dal finestrino del taxi, sulla circonvallazione, vedo las putas. Tutto il mondo è paese.

Nella foto allegata, a sinistra il patio con l’amaca, a destra la camerata dove ho dormito. Il letto è quello accanto alla finestra.

queste mi sono piaciute




diario allucinante


Diary – di Chuck Palahniuk

Waytansea Island, Stati Uniti d’America: Misty, ex promettente pittrice adesso fa la cameriera, Peter, suo marito, e’ in coma all’ospedale; la figlia Tabbi pende dalle labbra della suocera di Misty, Grace, mentre uno strano personaggio, Angel Delaporte, aiuta Misty ad analizzare grafologicamente le scritte apparse sui muri delle stanze di alcune case di Waytansea, ristrutturate da Peter prima di cadere in coma, che stanno ‘’scomparendo’’.
La trama di un libro di Palahniuk e’ sempre qualcosa di allucinante. Lo svolgimento anche, ma lo stile ormai lo conosciamo; momenti scoppiettanti, ma la magia si sta, mi pare, lentamente affievolendo. Lo scrittore, in questo Diary, stenta ad attanagliare il lettore e ad appassionarlo alla storia, e la lettura si trascina stancamente alla fine. Attendiamo nuovamente un libro pirotecnico e ammaliante, probabilmente Palahniuk ne e’ ancora capace.

20060219

riadattamento classico di un classico


Orgoglio e pregiudizio – di Joe Wright 2006

Inghilterra fine 1700, la famiglia Bennet non è più così ricca, e le figlie da maritare sono ben cinque: Elizabeth (Lizzie), orgogliosa, intelligente e ribelle agli inquadramenti dell’epoca, Jane, anche lei intelligente, bella, ma più docile, anche se molto legata a Lizzie, e le più piccole, ma già molto vispe, Lydia, Mary e Kitty. La signora Bennet è petulante, invadente e fin troppo attaccata alla sua missione, appunto, quella di trovare un buon partito ad ognuna di loro.Le prospettive si fanno interessanti, quando il signor Bingley, un ricco scapolo, prende in affitto una casa vicina a quella dei Bennet, portando con sé l’amico, il tenebroso signor Darcy. L’attrazione scatta tra Bingley e Jane, e, anche se in maniera profondamente diversa e tormentata, tra Lizzie e Darcy. Ovviamente, molti fattori si metteranno in mezzo, ma, si sa, non è vero amore se non si soffre.
Tratto dal famosissimo romanzo di Jane Austen, già adattato per il cinema e anche per la televisione (celeberrima la versione per la BBC con Colin Firth nei panni di Darcy, pluricitato nel “Diario di Bridget Jones”, libro, non film), il lavoro di Wright, onesto lavoratore della telecamera, non è poi così male. Anzi, si fa apprezzare per la scelta delle location, oltre che per i costumi e la fotografia. Non sarà un virtuoso, ma spesso, se non sei un genio, soprattutto per le trasposizioni letterarie, tanto più se storiche, non ce n’è un gran bisogno. La storia, il libro, ha già tutto quel che serve: una storia forte.Cast ordinato, dove spicca Keira Knightley, brava a livelli eccelsi.

Colombia gen 06 - 31


Holiday in Colombia 16
20/1/2006 ¿Todo es mentira en este mundo?

Nonostante le ore piccole non ci svegliamo poi così tardi, ormai è consuetudine, e poi in fondo il tempo va sfruttato a fondo. Il Nescafé che abbiamo comprato a Bogotà è una buona idea per la colazione, anche se i cornetti continuano, in ogni luogo, ad essere al formaggio. Ci informiamo sugli orari dei bus per Medellin, per decidere che fare stasera. La durata del viaggio è (così dicono) di 12 ore, quindi se prendiamo quello che prendono Cata e Vero (17,30), arriveremmo intorno alle 6 del mattino, e, sinceramente, è un po’ troppo presto per cercare alloggio. Il bus seguente parte alle 20, e contandoci un po’ di ritardo ci sembra quello giusto, quindi decidiamo per quello. Abbiamo la giornata a disposizione, e decidiamo di cercare un escursione verso le isole di fronte a Cartagena, ovviamente un qualcosa che non sia caro. La giornata è stupenda, e fa caldissimo. Chiediamo informazioni ad una signora per strada, su dove possiamo trovare passaggi per le isole a buon mercato, e la signora si spassiona spiegandoci di arrivare fino alla sede ufficiale, che ci indica, di tutte le piccole compagnie che effettuano questo servizio, e di non fermarci da quelli che ci intercettano per strada. Seguiamo le sue indicazioni, arriviamo alla struttura, chiediamo, orientandoci sulla visita di Boca Chica (le “entrate” via mare a Cartagena sono due, Boca Grande e Boca Chica); questa volta le trattative di Juli fanno arrabbiare il nero col quale discute, e la cosa ci crea un po’ di disagio. Nonostante tutto, compriamo il pacchetto, che comprende passaggio andata e ritorno, almuerzo e visita guidata all’isola. Partiamo, ho imparato a riparare meglio lo zaino dall’esperienza della lancia da Santa Marta a Playa Blanca, mi godo la vista, costeggiamo altre isole, il mare ha un colore strano, scuro, sembra più un grande fiume che un mare, e pensare che siamo nel Caribe. Arriviamo all’isola, e un nugolo di gente attende al molo, bambini soprattutto. Ci prende in consegna un ragazzo che si chiama Manuel, è la nostra guida, ci mostra la fortezza, parla troppo, ma c’è un fondo di tristezza nei suoi occhi. Un’altra cosa che fa un po’ tristezza sono i tiburones, sarebbero gli squali, ma qui sono bambini che stanno fissi in acqua e che ti chiedono di tirare una moneta in acqua, in modo che loro possano immergersi e recuperarla, per poi tenerla.
L’isola è povera di fascino, le spiagge sono tenute male, le “guide” che ti vengono assegnate (come Manuel per noi), al massimo per 4 persone, sono addirittura gelose delle persone delle quali sono “responsabili”. Non si capisce bene se davvero ci sia questa povertà profonda, o se sia tutto un gioco per incastrare i turisti. E’ quasi fastidiosa questa gentilezza, e unita all’ovvio ripensare all’arrabbiatura del tipo che ci ha venduto l’escursione ci mette veramente a disagio. Inoltre, Manuel continua ad ammorbarci con i suoi discorsi, e ci fa chiaramente capire che si aspetta una mancia a fine gita. Qui Juli si fa scura, e, visto che la guida era compresa nel prezzo, pretende una chiarificazione tra Manuel e la signora che pare la responsabile sull’isola, e che si occupa del nostro pranzo nella cucina di quella specie di ristorante dove mangiamo. Chiarimento avvenuto, Manuel rimane di cattivo umore, anche se è preoccupato del nostro. Si offre di guidarci ancora un po’, per altre spiagge dell’isola, ma ci rendiamo contro che non c’è davvero niente da vedere; a questo punto, gli diciamo chiaramente che è nostra intenzione rientrare prima del tempo. Ci accompagna dunque al molo, dove si contratta un rientro su una lancia diversa da quella sulla quale siamo arrivati, visto che rientrerà prima. Salutiamo Manuel, e non riesco a non dargli comunque una mancia. La partenza però, non è così immediata, aspettiamo in silenzio e ci scambiamo pareri un po’ divertiti su questa giornata e in particolare su questa escursione. Juli usa più volte la parola mentira, e a me viene a mente un pezzo di Manu Chao. Rientriamo, ripassiamo davanti alla torre dell’orologio per l’ultima volta, e ci avviamo verso il Marlin per ritirare in nostri bagagli, che abbiamo lasciato alla reception, mentre invece abbiamo lasciato la camera. Visto che però l’orario ce lo permette, contrattiamo l’uso di un bagno, di una eventuale camera libera, per lavarci prima di partire, visto che il viaggio si preannuncia lungo. La ragazza sexy si accorda con Juli, e a turno usiamo il bagno di un’altra camera. Adesso siamo freschi, anche se tra neppure 5 minuti sarò di nuovo completamente sudato, e possiamo ripassare le informazioni su come arrivare al terminal. Altro bus urbano, ci rechiamo lungo una strada dove passa, è lì vicino. Ne passano due, ci facciamo vedere ma non si fermano. Un passante ci spiega che c’è in giro la polizia stradale, e se i bus hanno i posti a sedere tutti occupati non si fermano (in altre occasioni tirano a fare ciccia, invece). Ci spostiamo qualche metro più indietro sulla stesa strada e finalmente se ne ferma uno. Durante il tragitto mi rendo conto quanto sia distante il terminal (all’andata, in taxi, forse mi ero distratto). Il sole tramonta, ogni tanto mi viene da riflettere sul fatto che qui sia inverno, come da noi; siamo sopra all’equatore, fa caldo ma fa buio alle 18 circa. Al terminal facciamo i biglietti, un’altra splendida prestazione di Juli, poi mangiamo qualcosa in uno dei tanti posti che costellano i terminal; le solite trattative per rimediare qualcosa senza prosciutto, con una signora più che simpatica, un toast al formaggio, che mando giù con una bottiglia di Postobon. Qui è doveroso aprire una parentesi. Il Postobon è una bevanda tutta colombiana, inoltre è lo sponsor della squadra di calcio più seguita (il Nacional di Medellin; per strada, lungo tutta la Colombia, noterete migliaia di maglie a strisce verticali bianche e verdi, naturalmente con la scritta Postobon. Esiste anche il top, da donna). Bene, per la prima volta l’assaggio, e decido che sia anche l’ultima. Sembra una medicina, e immediatamente mi viene in testa l’accostamento con il Fernet e coca argentino. Un tinto (caffè corto alla colombiana: una merda), e qualche sigaretta. Altra parentesi, già la legge sul fumo nei locali italiana si fa sentire. Domando sempre se si può fumare, e la gente mi risponde sgranando gli occhi di si. Ancora attesa, passata allegramente scherzando con Juli. Nonostante la mentira di Boca Chica, siamo allegri, siamo in viaggio, stiamo per andare a Medellin, siamo vogliosi di vedere, di macinare chilometri, di incontrare gente nuova. L’unica nota stonata è che siamo già al 20 gennaio, e il tempo sta passando.
Viene l’ora di partire, perquisizione accurata dei bagagli e delle persone, presenti un poliziotto e una poliziotta, giustamente. Si parte, e scopro con orrore, durante la proiezione di un dvd, che il bruttissimo spot contro la pirateria informatica, che in Italia vedo ogni volta che vado al cinema, è una cosa internazionale. Il copione è il solito, Juli dorme della grossa, io sonnecchio. Prima di mezzanotte però, quasi contemporaneamente, apriamo gli occhi e, guardando dal finestrino, vediamo una città che, non so perché, ci sembra familiare. Fermiamo per un’informazione il ragazzo tuttofare che di solito accompagna i due autisti sulle tratte lunghe, e domandiamo dove siamo. A Barranquilla. Rapida ricognizione mentale sulla carta della Colombia, qualcosa non quadra. E perché stiamo passando da qui? Ci viene spiegato che, durante le tratte notturne, la strada che permette di fare Cartagena-Medellin in 12 ore viene chiusa, per il discorso della guerriglia, e viene utilizzata quella da Santa Marta. In pratica, ripercorreremo a ritroso la strada che avevamo fatto fino a Santa Marta, risalendo la costa, e poi inizieremo ad andare verso sud, fino a Medellin. Morale della favola, un aggravio di almeno 4 ore sulla durata del viaggio. Cioè: Vero e Cata, col bus delle 17,30, arriveranno la mattina presto a Medellin, noi invece, partendo alle 20, arriveremo non prima di mezzogiorno. C’è poco da fare. Ascoltare il lettore mp3, dormicchiare, guardare la tv, guardare fuori dal finestrino, pensare. E aspettare.

20060218

Sheffield Wednesday or United?


Arctic Monkeys – Whatever People Say I Am, That’s What I Am Not

Già dall’incipit, la corrosiva The Wiev from the Afternoon, siamo di fronte a un qualcosa di più forte, rispetto alle innumerevoli “Next Big Thing” spinte dalle riviste specializzate, e spacciateci per tali negli ultimi anni, fino allo sfinimento. Da Sheffield, UK, inglobano tutte le possibili influenze punk inglesi (citatele da soli, please), ma le farciscono con una grinta inaspettata, almeno per questi tempi di vacche magre, e anche se ogni tanto piazzano degli up-tempo che ci stanno benino, ma che francamente sembrano lì per forza (che i discografici di adesso li richiedano per contratto?), visto che ultimamente li suonano tutti, ricordano i The Hives meno esasperati e un po' più "allungati", ma anche i Rolling Stone con 40 anni di meno. Begli assoli quasi heavy, e killer-songs quali From the Ritz to the Rubble, Fake Tales of San Francisco (nella quale richiamano i Blur), You Probably Couldn’t See for the Lights, But You Were Looking Straight, Still Take You Home, danno la spinta al disco.

Poi ci sono i brani soprendenti, nei quali si può trovare di tutto, tipo Perhaps Vampires Is a Bit Strong But…, o Red Light Indicates Doors Are Secure (cazzo, dove l’ho già sentita questa?), e quelli bellissimi, come la trasognante Riot Van, con un bridge straordinario e leggero, Mardy Bum, dove Alex, il cantante/chitarrista fa gli straordinari, disegnando una linea vocale da ricordare, e il breve ma stupendo solo di chitarra disegna capitelli barocchi sul foglio da disegno immaginario, si, proprio quello che tenete riposto nella vostra testa, e che aprite quando ascoltate buona musica chiudendo gli occhi, anche se a prima vista possono sembrare estratti da una cover di un bel pezzo da discoteca rivisitato in chiave rock.

Fresco, rock, giusto per scaldare questo inverno tutto sommato freddino.

20060217

Colombia gen 06 - 30


Holiday in Colombia 15
19/1/2006 City tour

Nonostante il fatto che in Colombia non esistono materassi degni di tale definizione, si può anche dormire peggio. Partiamo rilassati e curiosi di conoscere la famosa Cartagena de Indias, non prima di aver fatto conoscenza con la receptionist giornaliera del Marlin, una ragazza sensuale e procace, che come tutte le colombiane non ha problemi a mettere in mostra le sue grazie; anche lei molto simpatica, a dispetto di una espressione di base piuttosto cazzuta. Ci infiliamo dentro la città vecchia, molto bella da vedere, coloniale e colorata, riusciamo anche a trovare un bar dove la birra è conveniente, così come la comida, io ne approfitto per mangiare qualcosa mentre Juli dice che non ha fame (ma in verità sta cercando di fare economia, capirete dopo), e nel frattempo cerchiamo qualche agenzia turistica che venda un giro della città a buon prezzo. Ne troviamo due, il prezzo è simile, Juli cerca di contrattare ma qui è dura (stavo per scrivere cerchiamo, ma in effetti quando c'è da chiedere un prezzo la teoria di Juli è che, se sentono dal mio accento che sono europeo, i prezzi aumentano; io mi adeguo), quindi ci adattiamo e ne compriamo uno. Dobbiamo andare fuori dalla città vecchia, il tour parte da un hotel di quelli veri, quindi iniziamo a cercare la maniera per arrivarci, ovviamente con un bus urbano.
Arriviamo sul posto con netto anticipo, c'è da aspettare un'ora buona, ci dicono che ci possiamo accomodare nella hall. Bene, le poltrone sono comode. Juli è curiosa, trova la piscina, ma non ho voglia di fare il bagno e poi non ho il costume, ma soprattutto si rende conto che c'è un immenso buffet e che nessuno controlla. Io non ho la faccia per farlo, ma, come dice lei, lei è argentina: quasi tutti di origini italiane, e da noi hanno preso il peggio del peggio! Si fa tre giri di buffet, io invece uso solo il bagno; e le poltrone. Torniamo alle poltrone e ci troviamo due ragazze, ci sediamo lì vicino. Sono molto carine entrambe, scambiamo qualche battuta e scopriamo che faranno il city tour con noi. Sono Veronica e Catalina, di Medellin, e sono qui per una breve vacanza.
Parte il tour, l'autista è un nero enorme, la guida è una signora abbastanza simpatica. Cartagena ha della storia alle spalle, varie battaglie (è situata in un luogo strategico) e attacchi, dalle quali si è difesa sempre strenuamente, ha una bella fortezza sulla quale, oggi, sventola orgogliosa una enorme bandiera colombiana. A parte alcune viste verso il mare, piazze con poco significato, un convento situato sulla maggiore altura, dal quale si gode di una vista particolarmente suggestiva, o mercatini particolari, il grosso (e anche la parte più interessante) della visita è quella della fortezza citata sopra. Particolare da ricordare, dopo circa 10 minuti dalla partenza del tour, ci fermiamo per raccogliere tre ragazzi, che immediatamente individuo come italiani, e che Juli bolla immediatamente come impresentables. Ilarità generale quando la guida domanda a tutti di dire di dove siamo, e io, per non essere confuso, dico la prima cosa che mi viene in mente, ma per non tradirmi con accenti sbagliati dichiaro “Città del Vaticano”; poco dopo, in un attimo di confidenza, spiego alla guida il perché, non mi andava di essere bugiardo fino in fondo. Durante la visita familiarizziamo parecchio con Cata e Vero, tanto che fissiamo per trovarci per cenare e passare la serata insieme. La visita ci soddisfa, e troviamo anche il modo per farci lasciare vicino alla città vecchia, visto che saremmo stati molto più vicini al Marlin. Proseguiamo percorrendo le stradine suggestive di Cartagena, entrando dentro l’Università (bello il patio interno) e aspettando il tramonto. Ci sarebbe altrimenti mancata la quotidiana dose di camminata. Rientriamo al Marlin per una doccia e una birra, approfittiamo della tv per ascoltare il notiziario (l’ora è tarda per le telenovelas), e quando arriva l’orario prestabilito ci avviamo verso la torre dell’orologio per incontrare le ragazze. Ci troviamo quasi subito, e se possibile sono più sorridenti e gioviali del pomeriggio. Insistono perché Juli provi il ceviche (ma potrete trovarlo scritto anche seviche), una specie di cocktail di frutti di mare con maionese e altre salse (mi ricordo di averlo mangiato nel ’94 in Cile, non ero ancora vegetariano; evidentemente ha diversi viraggi in tutto il Sud America, in Cile non c’erano tutte quelle salse), e il luogo prescelto è un chiosco per strada, dove, chiaccherando, scopriamo che le ragazze sono sorelle. Né io, né Juli lo avevamo pensato. Veronica è la più grande, ed è ingegnere civile, Catalina studia all’università. Esaurita la prova-ceviche, le ragazze mi accompagnano in una pizzeria lì vicino, ma mi ritrovo a finire la pizza a tempo di record, visto che l’aria condizionata nel locale è a livelli di cella frigorifera, realmente insopportabile. Andiamo quindi decisamente verso il bar dove ho mangiato a pranzo, per approfittare della birra a prezzo ragionevole, e qui si consumano un paio d’ore che probabilmente rimarranno nella mia memoria come una delle serate più piacevoli, se non della mia vita, sicuramente di questo viaggio. Tutte e tre le ragazze mi tengono testa con le birre (anche se, ad onor del vero, la birra colombiana, di qualsiasi marca, è molto leggera), e la conversazione è davvero piacevole, tutti partecipano, addirittura sovrapponendosi, come fanno spesso le sorelle, con una musicalità buffa nel loro castigliano. Io e Juli andremo avanti fino alla fine del viaggio imitando il loro ¡ay nooooooo! Fantastico, soprattutto quando, casualmente, lo dicevano insieme. Sono, si vede chiaramente, della classe medio-alta, ma non hanno per niente la puzza sotto il naso, anche se sono di maniere educate e parlano un linguaggio forbito. Parliamo di politica (a Vero va bene Uribe, il presidente attuale, di centro-destra, a Cata non molto), cercano di spiegarci l’intreccio della guerriglia e di altri gruppi armati, allarghiamo il campo alla situazione internazionale, finiamo a parlare di uomini e donne. Scopriamo che in Colombia alcune ragazze definiscono el pollo l’eventuale ragazzo con il quale escono ma col quale non sono fidanzate. Risate e apprendimento, politica e pettegolezzi.
Su pressione di Juli, parte la ricerca di un posto per ballare. E’ il contrappasso adeguato, per un uomo da tavolo come me, dopo una serata così. Ma, sarà per la mia influenza sugli astri, giriamo ben 4 discoteche, o presunte tali, e il posto più popolato conta sì e no 10 persone, ed è una festa privata di compleanno, dove per entrare le ragazze insistono non poco, guadagnandosi alla fine le simpatie della festeggiata. Mi muovo come un orso, o meglio, come un tronco di legno guidato dalla corrente del fiume, e penso che se mi vedessero i miei amici storici si farebbero delle grasse risate, conoscendo la mia epocale avversione per il ballo. Al quarto tentativo, forse impietosite dalle mie prestazioni come ballerino, le ragazze decidono che per stanotte può bastare. Ci lasciamo appuntandoci indirizzi e-mail e numeri di telefono, se non dovessimo vederci il giorno seguente, anche se tutti l’indomani andremo a Medellin, le ragazze perché le vacanze sono finite, noi perché abbiamo deciso così. Loro partono col bus delle 17,30, noi dobbiamo decidere. Al limite, ci risentiamo a Medellin per rivederci. Ci salutiamo e rientriamo al Marlin, dove la faccia del mio amico alla reception mi mette ancora più di buonumore. E’ stata una gran bella giornata.

Colombia gen 06 - 29


Holiday in Colombia 14
18/1/2006 La vida es bella

La sveglia, dunque, non esiste. Non che gli altri, a parte Peter, siano molto riposati. Ad ogni modo ci prepariamo e partiamo per Pueblito presto. Il cammino è davvero complicato, in salita, lastricato da pietre, fango e difficoltà varie. Sono in grande difficoltà rispetto agli altri, sarà l'età, sarà che non sono abituato, sarà che non ho il fisico, fatto sta che meno male Peter si offre di portarmi lo zainetto e ogni tanto si ferma ad aspettarmi e a darmi una mano. Dopo quasi due ore siamo in cima, a Pueblito. Alcuni resti di un insediamento Tayrona, molto verde, e una capanna abitata, pare solo da bambini. Di fianco alla capanna una specie di microscopico bar che vende beveraggi, la ragazzina (così sostiene Juli, ma sinceramente non ero stato in grado di assegnare un sesso) india che si muove lì vicino però non parla. Un silenzio assordante, quando manca la comunicazione. Comincia la discesa, ed è dura quasi quanto la salita, essendo ripida le mie caviglie soffrono le pene dell'inferno. Arriviamo di nuovo a Cabo, salutiamo Francesco che rimane, e senza mangiare continuiamo a camminare verso Arrecifes, Cañaveral e l'uscita dal parco. Ci vuole quasi un'altra ora, e il sole è quasi allo zenith. Sosta a Cañaveral, beviamo un frullato in tre e andiamo al bagno, poi ripartiamo. Altri 45 minuti per arrivare al punto dove la jeep fa "servizio", e come all'andata appena c'è il cassone pieno in 10 minuti siamo all'uscita. Attraversiamo la strada perchè ci ricordiamo bene che il bar dalla parte del parco è molto più caro del ristorante di fronte, e cerchiamo di mangiare qualcosa; come sempre io ho qualche problema. Si avvicinano due poliziotti, hanno voglia di far conversazione. Uno di loro porta Juli a un ristorante lì vicino dove fanno un ottimo Tamales, ma è una roba piena di carne, quindi passo. Sono due ragazzi, giovani, giovanissimi, ci chiedono le impressioni sulla Colombia (una cosa che faranno quasi tutte le persone con le quali parleremo), ci dicono come vedono i nostri paesi, cose così. Li salutiamo e prendiamo il primo autobus che passa, dice che ci lascia al terminal di Santa Marta. Tra parentesi, stiamo cominciando a prendere in considerazione la possibilità di non scendere fino al Perù attraversando l'Ecuador, come avevamo progettato inizialmente. Ci sembra che in Colombia ci siano parecchie cose da vedere, troppe città dove arrivare, e distanze piuttosto lunghe. Dobbiamo solo verificare che il volo di ritorno lo possiamo predere da Bogotà, come mi pare ci sia scritto sul biglietto. Se così è, scenderemo fino a sud, e poi torneremo l'ultimo giorno a Bogotà. Chiusa parentesi. Da un estremo ad un altro, ci ferma la polizia per una perquisizione, poi si riparte. Al terminal io e Juli facciamo i biglietti per Cartagena, Peter partirà domani con calma per Barranquilla, vuole andare al carnevale. Solita trattativa, ma il bus parte tra mezz'ora. Vado con Peter, che rimane, al Miramar a prendere il bagaglio mio e di Juli, in taxi, Juli rimane qui perchè ha bisogno di usare internet. Ci carica un taxista dalla faccia magrebina, e mi pare molto simpatico, contratto il prezzo, mi sembra giusto, andiamo, bisogna fare alla svelta. Di corsa a scendere i bagagli da quella specie di soffitta dove li avevamo lasciati, l'addio con Peter è breve ma sentito, ci terremo in contatto e magari ci rivedremo, Berna non è così lontana. Ivan, così si chiama il taxista, riparte per il terminal e mi siedo davanti, preferisco, meno formale. Ce la facciamo, tranquilo, e ci lasciamo andare a una chiaccherata che sembra tra vecchi amici, donne, famiglia, lavoro. Mi racconta di sé, del fatto che lavora duro, che ha una ex moglie che gli rompe sempre le scatole e che vorrebbe tornassero insieme, di sua figlia, di sua madre, delle sue origini algerine, del suo parente in Francia che non lo vuole aiutare ad andare a lavorare lì, poi mi guarda e mi dice pero la vida es bella, ¿no? Mi chiede dove vivo, cosa faccio. Arriviamo in tempo, gli lascio 1000 pesos in più ma gli devo spiegare che glieli voglio lasciare, lui all'inizio non capisce, mi chiede il numero di telefono e mi dice che mi chiamerà. Ivan.
Partiamo per Cartagena de Indias e da stamattina sembrano passati tre giorni, invece è sempre il 18 gennaio. Ci dovrebbero volere un paio d'ore, ce ne mettiamo quasi quattro. Dietro di noi sul bus un bambino mulatto splendido ha voglia di giocare. La mamma avrà 15 anni. E viaggia con la mamma. Assurdo. Arriviamo che è buio, chiamiamo per una camera, hotel Marlin, consigliato da Francesco, economico, perfetto, prendiamo un taxi e andiamo. Durante il tragitto, solita storia del taxista (eppure Ivan era in gamba!), il quartiere è peligroso, l'hotel no es bueno, e via così. Da una parte ci entra, dall'altra ci esce. All'hotel Marlin, por favor. Arriviamo e l'impressione non è bellissima, ma la faccia del ragazzo alla reception mi mette a mio agio; sembra un rapper vestito da receptionist che ha comprato gli indumenti in un grande magazzino. Gentilissimo, ma grande e grosso, in una rissa è meglio essere suoi amici. La doppia con bagno è decente, non pulitissima, ma già a questo punto si è visto di peggio, e poi è super-economica. Unico neo, sembra di essere a parete con un salsodromo, musica a palla. Juli si esalta subito. Usciamo in cerca di cibo e per dare un'occhiata. In effetti, il quartiere non ha un bell'aspetto, soprattutto senza la luce del sole, qualche persona che dorme sugli scalini dei portoni, locali che sembrano pertugi (ma sono convinto che se entri ti diverti e nessuno ti rompe il cazzo), sporco per terra, facce truci. Ci facciamo tutta la strada e nessuno ci considera. Arriviamo a un parco, c'è una specie di festa ma pochissima gente, tiriamo dritto perchè vediamo la torre con l'orologio, oltre quella c'è la città vecchia, la parte più suggestiva. Ritiro dei soldi con la carta di credito in un cajero automatico e ho difficoltà: le operazioni vanno fatte troppo velocemente, e quando devi mettere gli zeri della cifra che vuoi ritirare vado nel pallone. Devo rifare l'operazione almeno quattro volte, ma alla fine vinco. Entriamo nella città vecchia, c'è pochissima gente in giro, e tutti i negozi, di qualsiasi tipo, sono chiusi. Vaghiamo alla ricerca di un boccone, alla fine troviamo un carretto di hot-dog, e, per pietà, il tipo mi fa una specie di hamburger solo formaggio: costa caro, ma lo fa come Dio comanda, cipolla, insalata, pomodoro, salse, ecc.ecc. Un paio di birre, una panchina, due chiacchere pensando ai personaggi conosciuti, all'itinerario futuro, a qualche presa in giro reciproca. Non c'è davvero nessuno in giro, e oggi, anche oggi, è stata una giornata pesante, abbiamo camminato tanto e mangiato poco. Rifacciamo la strada per il Marlin, ci laviamo, guardiamo un po' di tele (c'è anche la tele in camera!), la musica si è fermata, fa caldo, accendiamo il ventilatore a pala, e ci auguriamo la buonanotte.